La paura dei robot e dell’intelligenza artificiale è reale o solo immaginaria? E perchè il cinema se ne occupa?
Non sono l’unico forse che ricorda, con un sorriso un po’ nostalgico, le unghie incredibilmente lunghe di quel vampiro, figlio illegittimo del Dracula di Bram Stoker, noto ai più come Nosferatu.
Era il 1922 quando uscì nelle sale ed il cinema, che era da poco uscito dalle fiere e dai circhi, non aveva ancora finito di abbagliare il pubblico, proponendo la magia del movimento. Novità assoluta introdotta dai fratelli Lumière poco più di un ventennio prima. Vale la pena sottolineare che, un secolo fa, questo era un periodo piuttosto breve per la diffusione di una nuova tecnologia).
Ovviamente la scienza non aveva ancora portato alla luce fatti ormai divenuti di dominio comune, per cui la superstizione, il mito e la religione avevano ancora una spessa coltre di mistero a proteggerle, rendendole terreno più che fertile per storie in grado di far tremare le ginocchia. Anche a persone di una certa età.
Si racconta ad esempio che il celebre treno, ripreso frontalmente, proposto nel sopra citato primo film dei fratelli Lumière, fu sufficiente a svuotare la sala della proiezione, gettando tutti in preda al terrore!
Che bei tempi devono esser stati per un regista! Quando quello che viene definito in gergo “patto narrativo” non doveva ancora combattere contro smartphone, wikipedia e quant’altro.
Viene da chiedersi allora: cos’è successo? Quando è avvenuta la svolta che ha modificato così profondamente l’innato bisogno dell’essere umano di spaventarsi?
La lotta fra i grandi canali di comunicazione (cinema, radio e tv) ha ovviamente spinto la triade ad una progressione tecnica, che a sua volta ha anestetizzato gli spettatori. Rendendo loro necessario uno shock sempre maggiore per poter raggiungere quella condizione di “trance” che permette di percepire come reale ciò che viene proiettato sullo schermo. Ma è possibile distinguere tre fasi ben distinte, ben riflesse nel cinema horror. La prima è appunto quella del mito, rappresentata dal Nosferatu di Marnau.
Era il 1954 quando appare l’esponente del secondo momento dell’horror, Godzilla. Nasce in Giappone, 9 anni dopo la distruzione di Hiroshima e Nagasaki da parte degli americani, una ferita che non si rimarginerà mai più. Il trauma inflitto dalla tecnologia, incarnata dalla bomba nucleare, sarà così profondo da influenzare la poetica di un intero stato per settant’anni. E ancora oggi non sembra voler terminare.
Forse non tutti sapranno infatti che nelle prime versioni Godzilla è una mutazione genetica, frutto degli esperimenti nucleari che gli USA hanno (ed è storia vera) condotto per decenni nel Pacifico, non viene poi da stupirsi se le nuove versioni del film, di produzione stavolta Americana, abbiano tentato di deviare la trama dal tema centrale del film: il terrore suscitato dalla tecnologia atomica.
Passano quattordici anni e, negli Stati Uniti, il regista G.A. Romero riesce a strappare il concetto di “zombie” dal caos di un esotismo confusionario.
Scavando nella storia dell’arte si può vedere come per “esotismo”, si intende quell’accozzaglia insensata di stili che di solito precede lo sfiorire di una corrente, in pratica un’esaurirsi dell’ispirazione.
C’erano già stati altri film sul genere, ma erano sempre permeati di magia voodoo (pratica di magia nera Haitiana e Caraibica) e non avevano mai riscosso particolare interesse, rimanendo relegati nella categoria del “trash” (letteralmente “spazzatura”).
Con Romero la paura reale e tangibile della società a lui contemporanea prende forma: i tuoi amici, la tua famiglia, i tuoi colleghi potrebbero essere INFETTI. Il solido gruppo di individui collaboranti chiamato società potrebbe morire, da un momento all’altro. Non solo lasciandoti solo, ma tornando a chiedere un tributo in carne umana.
Risulta palese come possa essere proprio questa la paura più grande di una società fondata sul gruppo di persone, il fatto che lo stesso gruppo possa rivelarsi ostile, violento, brutale.
Non stupisce neanche l’evoluzione che ha subito il “morto vivente”, né il fatto che il successo sia arrivato abbandonando ogni legame magico per uno scientifico. Lo “zombie” è finalmente lo specchio delle paure dell’occidente post bellico.
Ovviamente col tempo le corrente si sono mescolate, divise e influenzate, generando miriadi di opere senza alcuna connessione geopolitica, se non un becero tentativo di imitazione.
Mi sembra personalmente evidente però l’apertura ad una nuova fase del cinema, horror e non, caratterizzata, come è stato per il Giappone degli anni ‘50, da una forte presenza tecnologica, una paura dei robot e dell’intelligenza artificiale.
Sono già a decine infatti le opera, anche solo cinematografiche, che riportano questo come tema principale, affrontato dalle prospettive più disparate:
Il cinema, come le altre arti, è in grado di riflettere ciò che una comunità spesso non è in grado di vedere in sé stessa. Così analizzandone le paure è possibile comprenderne le meccaniche basilari.
La domanda che sorge spontanea è: “Sarà quindi un caso che, insieme a questo ritorno del terrore tecnologico, dagli anni ‘80 ad oggi si sta facendo largo anche quel filone che vede come scenario una Terra desolata e sfinita dall’attività umana, noto come post-apocalittico?”
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