Se l’Italia è divenuta facilissimo bersaglio degli hacker, tanto da avere subito il 169% in più di attacchi nel 2022 (rapporto annuale del Clusit, condotto su 148 paesi). Se la dirigenza politica del Paese non ha ancora consapevolezza del ruolo nevralgico che il digitale ha nelle attività pubbliche e private della cittadinanza, mostrando più interesse per il solito vecchio clientelismo, piuttosto che a salvare il Paese da implosione certa.
Se in ambito scolastico è a tutt’oggi inesistente una formazione tecnica propedeutica allo studio diffuso delle discipline STEM,
come si può pensare di ridurre il gap, circa il grado di digitalizzazione, con gli altri Stati (vedi l’indice DESI) e rendere l’Italia una nazione moderna, competitiva e, soprattutto, protetta dagli “invasori cibernetici”?
Procrastinare ancora interventi di sicurezza risolutivi, date anche le recentissime dimissioni del direttore dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, Roberto Baldoni, significa esporre gli italiani a gravissimi rischi e pericoli.
Cosi come, procrastinare ancora un serissimo piano di digitalizzazione per il Paese, vuol dire perdere il treno della transizione digitale, che ha scadenza nel 2030, con deleteria ricaduta anche economica, non solo per la perdita dei fondi del PNRR, ma perché è ormai indissolubile il legame che unisce l’economia nazionale all’evoluzione tecnologica di ogni Paese.