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Intelligenza Artificiale: tra creatività, professionalità, esperienza, competenza e copyright

Proviamo ad impostare un ragionamento insieme. Secondo te se un contenuto (un’idea, una riflessione, un articolo di giornale, una ricerca, un’elaborazione grafica, ecc.) è generato da una intelligenza artificiale, ma sulla base di un prompt ideato da un professionista affermato e competente in materia, che poi quel contenuto valida (corregge, se necessario, verifica, accetta e diffonde), si può dire che il contenuto è frutto della sua conoscenza? O è solo un prodotto dell’IA?

La domanda tocca diversi temi complessi come l’autorialità, la creatività ed il ruolo dell’intelligenza artificiale nel processo creativo. Quando un’intelligenza artificiale come ChatGPT genera un contenuto su richiesta di un esperto, quel contenuto è effettivamente un prodotto della conoscenza inserita nel modello attraverso i dati di addestramento e degli algoritmi utilizzati per generare la risposta.

Tuttavia, l’intervento dell’esperto nel processo (dall’ideazione del prompt alla validazione e correzione del risultato) aggiunge un ulteriore livello di conoscenza e competenza. L’esperto non solo guida l’IA nella direzione desiderata, ma ne interpreta e modifica il risultato sulla base della sua comprensione ed esperienza.

Si potrebbe dire che il contenuto finale è una sorta di collaborazione tra l’intelligenza umana e quella artificiale. La conoscenza e l’esperienza del professionista sono cruciali per formulare il prompt iniziale e per valutare e migliorare l’output dell’IA. Pertanto, il prodotto finale può essere visto come un’estensione o un’applicazione della conoscenza dell’esperto, anche se non è generato direttamente dalla mente umana.
Ed ancora, se l’esperto apporta modifiche sostanziali o utilizza l’output dell’IA come un punto di partenza per ulteriori elaborazioni, allora il ruolo creativo e intellettuale dello stesso diventa ancora più evidente. In questo caso, l’AI agisce come uno strumento o assistente che amplifica o “aumenta” le capacità del professionista.

A questo punto è ragionevole attribuire una certa paternità intellettuale a quell’esperto, pur non potendo non riconoscere il ruolo dell’IA nella genesi del progetto.

🅿.🆂.
Questo post nasce da una delle mie tante chiacchierate con ChatGPT-4. Così come l’immagine che lo accompagna. Il contenuto è stato poi da me rielaborato. Ora, è mio o suo???
Non lo so, ma, a mio avviso, la vera domanda da porsi è: “Alla fine è così importante?”

La dislessia ed il progetto Vrailexia: tecnologia e inclusione nell’istruzione superiore

La dislessia è spesso avvolta in un velo di misconcezioni, etichettata erroneamente come una disabilità quando, in realtà, è una differenza genetica che incide sul modo in cui il cervello elabora le informazioni. Immaginate un computer con un sistema operativo diverso; non è né migliore né peggiore, è semplicemente diverso. E questa diversità porta con sé una gamma unica di punti di forza e di sfide.

Chi è dislessico sa bene che il proprio cervello è cablato in modo diverso, una configurazione che può manifestarsi come una straordinaria creatività o un’abilità di pensare “fuori dagli schemi”. Non è raro trovare dislessici che eccellono nel risolvere problemi complessi o nel vedere connessioni tra concetti che a prima vista sembrano non correlati. E non è tutto: molti di loro sono dotati di notevoli abilità comunicative e sociali, talenti che trovano terreno fertile in campi come il marketing, la vendita e la gestione delle relazioni.

Ma la medaglia ha anche un rovescio. La dislessia può rendere ardue alcune delle attività che la maggior parte delle persone dà per scontate, come leggere un libro o scrivere una mail. Queste sfide emergono spesso già nell’infanzia e possono richiedere interventi pedagogici mirati. L’obiettivo? Sviluppare strategie di apprendimento che siano efficaci per quel particolare sistema operativo cerebrale.

E poi c’è il muro del pregiudizio, forse il più difficile da abbattere. La dislessia è spesso erroneamente associata a una mancanza di intelligenza o a una sorta di pigrizia innata. Questi stereotipi non solo sono inesatti, ma possono anche erodere l’autostima e il benessere emotivo delle persone dislessiche.

Fortunatamente, viviamo in un’epoca in cui la ricerca e l’innovazione stanno gettando nuova luce su come affrontare la dislessia dal punto di vista pedagogico. Da tecniche di insegnamento multisensoriali a software educativi che utilizzano l’intelligenza artificiale, gli strumenti a nostra disposizione per personalizzare l’esperienza di apprendimento sono sempre più sofisticati.

In ultima analisi, la dislessia è una sfaccettatura della diversità umana che merita di essere compresa e valorizzata, non solo per le sfide che comporta, ma anche per i talenti unici che può rivelare. Con il giusto mix di comprensione e supporto, la dislessia può essere vista non come un ostacolo, ma come una lente attraverso la quale interagire in modo diverso con il mondo che ci circonda. E in un mondo che cambia rapidamente, la diversità di pensiero è più che mai un bene prezioso.

Con questa comprensione della dislessia, esploriamo ora le sue implicazioni nel contesto accademico, un terreno che spesso evidenzia sia i talenti che le sfide associati a questa condizione.

Implicazioni nella Vita Accademica

Immaginate di camminare in un labirinto di parole, dove ogni frase è un sentiero che si biforca, ogni parola un incrocio. Questa è la realtà quotidiana di uno studente dislessico nel contesto accademico. La lettura, che per molti è un processo quasi automatico, diventa per loro un terreno minato di ambiguità e di ostacoli. E non si tratta solo di letteratura o grammatica; pensate a un testo di storia, di scienza o di matematica. Ogni disciplina, in un modo o nell’altro, richiede la capacità di navigare attraverso un mare di parole.

Ma la sfida non si ferma alla lettura. C’è una dimensione più subdola, quella della gestione del tempo e dell’organizzazione. Mentre i coetanei pianificano le loro giornate tra lezioni, studio e tempo libero, lo studente dislessico può trovarsi a lottare con un calendario che sembra sempre troppo pieno, un orologio che corre troppo veloce. Il risultato? Stress e ansia che raggiungono il picco nei periodi di esami o di consegna di progetti.

Emerge un altro elemento preoccupante: tra gli studenti con dislessia, si registra un indice di abbandono scolastico superiore. È cruciale ribadire che la dislessia non costituisce una misura del quoziente intellettivo né un barometro delle capacità personali. Piuttosto, agisce come una sorta di lente attraverso la quale le informazioni vengono processate in modo diverso. Fornendo il supporto adeguato, come un tutoraggio specifico o modifiche nelle modalità d’esame, il raggiungimento di traguardi accademici diventa assolutamente fattibile.

In questa era digitale, la tecnologia viene in soccorso. Pensate a software di lettura vocale che trasformano il testo scritto in un flusso sonoro, o ad applicazioni che aiutano nella pianificazione e nell’organizzazione delle attività. Strumenti che non solo livellano il campo di gioco, ma che potrebbero anche insegnare a tutto il sistema educativo una o due cose sull’inclusività.

E parlando di inclusività, non possiamo ignorare il ruolo cruciale degli insegnanti. Una formazione adeguata a riconoscere i primi segni della dislessia può fare la differenza tra un percorso accademico fatto di ostacoli e uno di opportunità. Un intervento tempestivo può armare lo studente con le strategie e gli strumenti necessari per affrontare le sfide, non come problemi, ma come occasioni di crescita.

La dislessia ci pone di fronte a una questione più ampia, quella di un modello educativo che necessita di flessibilità e di apertura. Non si tratta solo di adattare l’istruzione alle esigenze degli studenti dislessici, ma di creare un ambiente in cui ogni individuo, indipendentemente dalle proprie sfide, possa esprimere al meglio il proprio potenziale. E in un mondo che cambia a una velocità vertiginosa, questa potrebbe essere la lezione più importante di tutte.

Le sfide affrontate dagli studenti dislessici nell’ambito accademico evidenziano la necessità di innovazioni pedagogiche. Una di queste innovazioni è il progetto Vrailexia, che mira a facilitare un apprendimento più inclusivo.

Vrailexia: Un Passo Avanti verso l’Inclusione

In un’era dominata dall’avanzamento tecnologico, che sembra offrire soluzioni a una vasta gamma di problemi, spicca un progetto destinato a cambiare il nostro approccio alla dislessia. Si tratta di Vrailexia, un’iniziativa che ha guadagnato il riconoscimento e il finanziamento della Commissione Europea attraverso il programma Erasmus+. L’obiettivo di Vrailexia non è solo quello di riscrivere il discorso sociale riguardante la dislessia, ma anche di offrire strumenti pratici per gli studenti universitari che si confrontano con questa condizione.

Immaginate una piattaforma di e-learning chiamata “BESPECIAL”, alimentata da algoritmi di intelligenza artificiale che adattano l’esperienza di apprendimento alle esigenze individuali di ogni studente dislessico. Ma Vrailexia va oltre. Introduce anche l’uso della realtà virtuale per valutare la dislessia, offrendo agli insegnanti una lente attraverso la quale possono vedere e comprendere le sfide quotidiane che i loro studenti devono affrontare.

E non pensate che Vrailexia sia un progetto confinato entro i confini di una singola nazione. Al contrario, l’ambizione è quella di standardizzare una procedura che possa essere adottata in tutte le università europee. Il fine ultimo? Creare ambienti di apprendimento che non solo accolgano gli studenti dislessici, ma che siano modellati sul principio del Universal Design Learning, un approccio pedagogico che mira a rendere l’istruzione accessibile a tutti, indipendentemente dalle loro specifiche esigenze.

Ma un progetto di questa portata non può essere portato avanti da una singola entità. Il consorzio Vrailexia è un melting pot di competenze e prospettive, composto da 7 università, 2 fornitori di formazione professionale e una società privata. Questa collaborazione interdisciplinare non solo arricchisce il progetto, ma amplifica anche il suo impatto, aprendo la strada a una più ampia applicazione e adozione.

E mentre gli strumenti e le metodologie sviluppate da Vrailexia promettono di apportare cambiamenti immediati nel mondo accademico, il suo impatto potrebbe estendersi ben oltre. Potremmo vedere queste innovazioni applicate in vari settori, contribuendo a un approccio più inclusivo e olistico alla dislessia a livello sociale.

La promessa di Vrailexia è intrinsecamente legata alla tecnologia. Ora, esploreremo come la tecnologia, rappresentata da realtà virtuale e intelligenza artificiale, si configura come una potente alleata nel contesto di Vrailexia.

Tecnologia come Alleata

In un’epoca in cui la tecnologia permea ogni aspetto della nostra vita, il progetto Vrailexia emerge come un faro di innovazione, dimostrando come l’intelligenza artificiale e la realtà virtuale possano essere alleate potenti nel trattare questioni sociali complesse come la dislessia. Ma andiamo oltre i titoli accattivanti ed esploriamo come queste tecnologie stiano realmente cambiando il gioco.

Prendiamo ad esempio “BESPECIAL”, la piattaforma di e-learning adattiva di Vrailexia. Alimentata da algoritmi di intelligenza artificiale, questa piattaforma fa molto più che semplicemente fornire materiale didattico. Adatta il ritmo, il livello e il tipo di contenuto in base alle esigenze individuali di ogni studente dislessico. È come avere un tutor personale che comprende le tue specifiche sfide e ti guida attraverso un percorso di apprendimento su misura.

Ma la tecnologia non si ferma qui. La realtà virtuale entra in scena come un potente strumento di empatia e comprensione. Immaginate un ambiente controllato in cui gli studenti dislessici possono essere valutati senza il timore di essere giudicati. Ora, immaginate un simulatore che permette ai docenti di calarsi nei panni dei loro studenti, offrendo una visione dall’interno delle sfide quotidiane che la dislessia comporta. È un cambio di prospettiva che potrebbe rivoluzionare non solo l’approccio educativo, ma anche il dialogo sociale sulla dislessia.

E non dimentichiamo che Vrailexia è un esempio lampante di collaborazione interdisciplinare. Non stiamo parlando solo di ingegneri e sviluppatori di software. Il progetto coinvolge un’ampia gamma di esperti, da neuroscienziati e psicologi a pedagogisti, tutti uniti da un obiettivo comune: utilizzare la tecnologia per creare un mondo più inclusivo.

Tuttavia, come ogni medaglia ha il suo rovescio, anche l’uso di queste tecnologie avanzate solleva questioni etiche che non possono essere ignorate. La gestione dei dati sensibili, come i profili di apprendimento degli studenti, è un terreno minato che richiede una navigazione attenta per garantire la privacy e la sicurezza.

La prospettiva di inclusione di Vrailexia ci porta a esplorare le connessioni intriganti tra la cognizione umana, in particolare la dislessia, e le avanzate architetture di intelligenza artificiale come i Transformer.

Analogie tra Funzioni Transformer e Schemi Cognitivi Dislessici

Nel labirinto della cognizione umana, dove neuroni e sinapsi tessono la trama complessa del pensiero, emerge una connessione sorprendente con l’intelligenza artificiale. Sì, sto parlando delle architetture Transformer, quei modelli di linguaggio che stanno rivoluzionando il modo in cui interagiamo con la tecnologia. Ma cosa succede quando queste macchine sofisticate incrociano il loro percorso con la dislessia, quel disturbo neurobiologico che riguarda la capacità di leggere e scrivere?

Ebbene, sembra che i Transformer abbiano qualcosa in comune con il cervello dislessico. Mentre la dislessia è spesso associata a un approccio cognitivo “spaziale” o “olistico”, i Transformer utilizzano meccanismi di attenzione per analizzare una sequenza di dati, senza seguire un ordine lineare. È come se entrambi avessero una sorta di radar interno che pesa l’importanza di ogni elemento, decidendo quale merita più attenzione.

Molti individui affetti da dislessia affermano di avere una particolare facilità nel comprendere i testi prodotti da modelli di linguaggio come ChatGPT. Sembra che la struttura e la chiarezza dei contenuti generati da queste piattaforme rendano l’esperienza di lettura meno impegnativa e più soddisfacente per loro. Sebbene la scienza non abbia ancora studiato queste osservazioni, l’evidenza empirica è troppo forte per essere ignorata.

E qui entra in gioco un altro aspetto interessante: la sintesi. I modelli di linguaggio come GPT-4 sono maestri nel condensare informazioni, eliminando il superfluo e mettendo in luce ciò che conta davvero. Per una persona con dislessia, che potrebbe trovare più facile concentrarsi su testi “filtrati”, questa è una manna dal cielo.

Ma non è tutto oro quel che luccica. Mentre i Transformer possono semplificare il linguaggio, rendendolo più accessibile, emergono anche questioni etiche e sociali. Ad esempio, come garantire che la personalizzazione non diventi un ostacolo all’accesso a informazioni più complete e dettagliate? E come assicurare che queste tecnologie non creino nuove barriere, piuttosto che abbatterle?

Queste sono domande che richiedono risposte ponderate, frutto di un esame che vada oltre la superficie. Ma una cosa è certa: l’intersezione tra le funzioni Transformer e la cognizione umana è un terreno fertile per l’innovazione. Con un occhio attento alle implicazioni etiche, questa convergenza tra intelligenza artificiale e neuroscienze potrebbe aprire la porta a un futuro in cui l’informazione è veramente accessibile a tutti, indipendentemente dalle loro esigenze cognitive o stili di apprendimento. E in un mondo che brama sempre più inclusività, questa è una prospettiva che nessuno di noi può permettersi di ignorare.

Le riflessioni sull’intersezione tra la dislessia e le funzioni Transformer ci guidano verso la conclusione, evidenziando come il progetto Vrailexia rappresenti un’opportunità di costruire un ponte tra queste due realtà per una società più inclusiva.

Conclusione

Il progetto Vrailexia rappresenta un passo significativo verso un’istruzione più inclusiva per gli studenti dislessici, sfruttando la tecnologia per superare le barriere e valorizzare le potenzialità di ogni individuo. L’osservazione sulla somiglianza tra le funzioni Transformer e certi schemi di pensamento potrebbe essere più di una semplice coincidenza; potrebbe essere un invito a esplorare ulteriormente come le diverse modalità di pensiero, sia umane che artificiali, possono imparare l’una dall’altra.

Non siamo noi a decidere di come parlare del nostro prodotto ma gli altri

Non siamo noi a decidere di come parlare del nostro prodotto ma gli altri. E’ la cosa più complessa da far capire quando si parla di SEO, perché noi ci occupiamo di comprendere:

  • ciò che gli altri cercano
  • come lo cercano
  • che tipo di parole usano
  • a seconda della loro cognizione culturale.

Sembra una banalità, ma è ancora la cosa più complessa da far capire ai produttori: se vendiamo farmaci per “il mal di testa”, non possiamo pensare che le persone cerchino “cefalea” o “emicrania” perché non è nel loro linguaggio comune, non è la loro quotidianità, non c’è il tempo di interessarsi alla terminologia corretta e l’istinto porta alla ricerca più vicina alla nostra conoscenza.

Ci saranno persone più appassionate che sapranno pure la differenza tra “cefalea tensiva” e “cefalea a grappolo” ma, la stragrande maggioranza delle persone, naturalmente, cercherà “mal di testa”.

E, a vedere, da Google Trends, qui sotto, siamo proprio messi bene in Italia 🙂

google trends

Non siamo noi ad imporre il nostro volere al mercato, lo sappiamo bene, eppure quando si tratta di intenti di ricerca, facciamo fatica a comprendere che è davvero il momento in cui la nostra conoscenza della materia non può avere la meglio: la meglio è sempre del pubblico.

Ciao Mario!

Abbiamo appreso con profondo dolore la notizia della morte del Prof. Mario Pacelli.

La redazione di Moondo esprime le più sentite condoglianze alla famiglia e desidera ricordare Mario per la straordinaria persona che era. Oltre ad essere un serio professionista, massimo esperto della vita a Montecitorio ed al Quirinale, Mario era un Signore d’altri tempi, una persona di grande integrità, pronta a condividere il suo sapere, senza mai chiedere nulla in cambio. Un uomo capace di mantenere viva la sua curiosità, anche di fronte a cambiamenti epocali.

Ti abbiamo voluto bene e speriamo di averti fatto divertire con le nuove tecnologie digitali.

Ciao Mario!

Intelligenza Artificiale: opportunità o minaccia? Dipende da quanto vali…

Ho ascoltato la puntata di Eta Beta in cui Massimo Cerofolini si fa sostituire dalle AI per condurla: chatGPT per i testi e una voce clonata grazie alla piattaforma Algho di QuestIT. Massimo è stato veramente top nel farlo, perché ha dimostrato che le AI ci sostituiscono, certo, lavorano instancabilmente e meglio di noi in molti campi, certo, ci supportano nella ricerca e lo sviluppo di tecnologie pulite, certo, ci aiutano nella diagnosi precoce di determinate malattie, certo, MA…

Eta Beta, la si ascolta perché è stato Massimo a renderla interessante, unica e stimolante.

La si ascolta perché è Massimo a strutturare ogni puntata, ad ascoltare il sentiment delle persone attorno a sé per scegliere argomenti e interviste giuste ed è sempre Massimo che, seppur aiutato per i testi, ha l’esperienza per decidere come porre le domande giuste a seconda dell’intervistato.

Inoltre, Stefano Scarpetta, DG su Lavoro e Affari Sociali OCSE, che ha condotto un’indagine su 2.000 imprese settore manifatturiero e finanziario, 3.500 lavoratori, 7 Paesi OCSE il primo tra gli intervistati dice chiaro:

“Soprattutto per i lavoratori, a più alte qualifiche, l’introduzione delle AI ha migliorato la qualità del loro lavoro, si possono concentrare su mansioni più interessanti, meno pericolose… meno tra le persone con qualifiche più basse, in cui il rischio di perdere il lavoro è più importante”.

Per cui, una volta di più, parlo per le professionalità che conoscono profondamente, web writer, SEO specialist, social media manager, graphic designer: non sentiamoci arrivati, studiamo per crescere la nostra unicità accanto alle AI, informiamoci e formiamoci costantemente, alleniamo il cervello e la nostra creatività.

Perché, forse, è l’era in cui meriti, talenti, unicità e riconoscibilità avranno la meglio e, in questa fase di transizione, è davvero il caso di decidere se vogliamo dare il meglio e rimanere sulla cresta del web.

Big Data e limitazioni

Qualche giorno fa Elon Musk pubblica questo tweet dove dichiara che verrà limitata per ogni account la lettura dei tweet, con modalità diverse a seconda del tipo di profilo.

Elon Musk - Twitter

Scoppia l’indignazione generale, ma fermiamoci a ragionare un attimo.

La questione “limite di frequenza superato” è dovuta al fatto che altre piattaforme (fra cui Open AI, quella di ChatGpt) stiano effettuando letture massive sulla piattaforma per acquisire dati di “sentiment analysis” su Twitter.

In pratica i tweet vengono letti, analizzati da un motore inferenziale e ricavate informazioni sui trend di opinione.
Cosa che su twitter è possibile da sempre, l’algoritmo è – semplificando – aperto, al contrario degli altri social. Un mio studente, tra i più brillanti (ciao Marco), per la sua tesi sviluppò una app per fare sentiment analysis su twitter, ma ora lo fanno realtà come Open AI con potenzialità diverse.

Questi dati, che sono molto più consistenti e sinceri di quelli raccolti dai sondaggi, possono venire utilizzati per scelte su beni di consumo, proposte finanziarie o, ovviamente, per fini politici.

Chi fa questo genere di ricerca in pratica ruba risorse di Twitter senza, di fatto, fornire un guadagno alla piattaforma ispezionata.
Se voi foste Elon Musk non vi roderebbe un attimino?!

La contromossa, temporanea, è stata quella di limitare gli accessi in lettura. Immagino che a Twitter stiano studiando sistemi per individuare questo tipo di letture, distinguerle da quelle regolari e intercettarle o tariffarle.

L’aspetto più inquietante, se vogliamo, è che elaborando i dati raccolti, le AI possono iniziare a produrre tweet ben più efficaci di quelli della fabbrica di troll.

La cosa può assumere importanza fondamentale nelle prossime elezioni americane quando i sistemi saranno a punto e qualsiasi candidato potrà acquisirne i servizi per una forma di propaganda indistinguibile dalla esposizione di un’opinione umana di alto livello.
Cambridge Analitica docet.

Il provvedimento deve avere per forza carattere di urgenza ed essere temporaneo. La limitazione nelle letture impedisce anche la lettura dei tweet pubblicitari. Gli inserzionisti ne sono danneggiati e potrebbero rivalersi sulla piattaforma.

Alle cose va cercata sempre una spiegazione che difficilmente è il primo link o il primo tweet.

Lasciarsi trasportare dall’indignazione generale, fungere passivamente da megafono a informazioni solo perché le condividono tutti non è esattamente segno di grande senso critico.

Reputazione online e SEO: coppia perfetta

La nostra reputazione online è fondamentale, qualsiasi settore in cui operiamo, non c’è verso: ho bisogno di qualcosa, voglio sapere chi sei e cosa fai, cerco su Google. Attenzione, anche cercassi su ChatGPT, Perplexity e chi più ne ha ne metta, sempre da un contenuto nelle prime posizioni del motore di ricerca si estrapola l’informazione. Non siamo nelle prime posizioni? Peccato, qualcuno parlerà di noi al posto nostro. Ed è la SEO a permetterci, ancora oggi, di crescere nella pagina di ricerca di Google, acquisire la nostra reputazione online quando siamo ai primi posti evitando ci siano altri per noi, aumentare la nostra possibilità di fare business.

Dico ancora oggi ma dovrei dire: finché ci sarà un motore di ricerca non potrà che essere così.

Se sei ai primi posti, la tua reputazione online cresce

Conquistare le prime posizioni nella categoria per la quale si vende il proprio prodotto e servizio fa referenza, fateci caso. Genera un bellissimo effetto a catena:

  1. inizi a posizionarti nelle prime posizioni per gli intenti di ricerca del tuo settore;
  2. le persone cliccheranno maggiormente il tuo contenuto;
  3. inizieranno a conoscere il tuo Brand e la tua affidabilità nell’informazione;
  4. cominceranno a seguirti ovunque, non solo su Google;
  5. molto probabilmente si iscriveranno alla tua newsletter;
  6. a quel punto ti cercheranno direttamente per il nome del tuo Brand.

Ed essere primi, oggigiorno, non si fa più da soli, è un lavoro continuo e imperterrito di verifica dell’usabilità e velocità del proprio sito, posizionamento ottenuto, contenuti scritti, revisionati, ampliati, aggiornati, modificati e, a volte, eliminati. Non solo, sempre di più è un lavoro che richiede occhi ovunque: cosa stanno facendo quelli dell’advertising sopra la nostra testa, come siamo a link dall’esterno verso l’interno, quanto siamo seguiti sui social, quali contenuti vengono cliccati maggiormente dalla nostra newsletter e, quindi, piacciono di più al nostro pubblico preferito, quanto siamo conosciuti offline.

La SEO non è solamente “sistemo il sito web e metto due contenuti“, se vogliamo avere una reputazione online che si rispetti dobbiamo pensare a un vero e proprio presidio della pagina di ricerca, dobbiamo puntare a sbaragliare la concorrenza e dobbiamo avere tanta cura di chi viene a comprare da noi.

Fare SEO significa conoscere il proprio pubblico

Per la nostra reputazione online dobbiamo avere un pubblico fidelizzato, che ci ama, che è così contento di noi da supportarci con condivisioni, commenti, iscrizioni alla newsletter, passaparola. Ed è chi fa SEO che conosce infinitamente bene il pubblico, perché studia il comportamento di ricerca dello stesso, sa cosa vuole e quando, come lo vuole trovare e quanto tempo ci spende per farlo. Chi fa SEO conosce il vocabolario di chi cerca, ha la capacità di comunicare per essere compreso, studia il miglior modo per servire il contenuto nel più breve tempo possibile. È vicino al pubblico tanto quanto coloro che si occupano di social media marketing (tant’è che io li tratto sempre insieme).

Non solo, fare SEO significa conoscere vita, morte e miracoli del proprio competitor perché, ogni giorno, online è proprio su di lui che si misura ogni risultato: ci sono nuovi contenuti, vengono create nuove pagine promozionali, ci sono delle modifiche strutturali che aumentano l’usabilità, si cresce per alcuni intenti di ricerca e per altri no, sono tutte informazioni a portata di SEO strategist.

Con l’avvento delle AI e la possibilità di risparmiare del tempo per operazioni di routine, per persone come me, sarà più semplice immergersi nello studio degli accadimenti nella pagina di ricerca, diventando un valido aiuto per tutti gli altri canali di conversione. Noi sappiamo precisamente quando stiamo perdendo reputazione online e quando qualcuno, invece, sta crescendo al posto nostro.

Anche solo semplicemente perdendo traffico dalle keyword di brand che, indirettamente, fanno sempre parte di una strategia SEO che si rispetti, lo scrivevo sopra, man mano che si è conosciuti, il pubblico smette di cercarci per parole chiave generiche e punta al nostro brand.

Del resto, è semplice, chi cercherebbe mai le mitiche Stan Smith dell’Adidas chiamandole soltanto sneaker bianche?

Giulia Bezzi

Se non conoscete le Stan Smith, please, recuperate velocemente, per me sono le scarpe più belle in assoluto, perfette da utilizzare con tutto, persino tailleur eleganti. Per le persone “Sporty Spice“, come mi definisco io, sono semplicemente perfette e il rapporto qualità prezzo è da paura. [Adidas, ora ti tocca prendermi come Brand Ambassador, vedi te che razza di promo che ti ho appena servito su piatto d’argento].

Cosa dobbiamo fare per la nostra reputazione online con la SEO allora?

Ci si mette l’anima in pace e si pensa ad avere un sito web tirato a lustro, studiato nei minimi dettagli, senza avere fretta di “tirarlo su” proprio come con la casa in cui si va ad abitare: se ci dicessero che ci mettono 20 giorni per consegnarcela non avremmo paura ad entrarci?

Per poter avere un sito web da paura si dovrà creare spazio perché l’agenzia SEO o la web agency che ci segue possa:

  • intervistarci per capire bene cosa facciamo;
  • reperire tutto il materiale possibile e immaginabile per scrivere contenuti che non siano “guarda online cosa c’è e copia“;
  • fotografare e pensare a video meraviglia per tutti quei prodotti e servizi che senza non hanno nessun appeal;
  • rifarlo ogni volta che la nostra web agency richiede supporto.

Una volta online il sito web meraviglioso super SEO oriented, inizia il lavorìo, continuo e imperterrito, per accrescere la nostra reputazione online, visto che dobbiamo apparire come i migliori nel nostro campo, per cui minimo della pena:

  1. nuovi contenuti per esaurire tutti gli intenti di ricerca puntuali e correlati sul nostro argomento;
  2. aggiornamento dei vecchi contenuti, perché il mondo cambia e, se non siamo Socrate, cambia anche il nostro punto di vista attorno al mondo, il nostro prodotto e servizio e, spesso, il nostro pubblico;
  3. eliminazione o archiviazione di risorse, così come ci si evolve così si perde interesse e buttare via budget crawler (tempo speso da Google sul nostro sito web per valutarci e darci soddisfazione con qualche posizione in più) per ciò che non ha più nessun interesse per il pubblico è dannoso;
  4. mantenere il nostro sito web in manutenzione, così come si chiama l’idraulico ogni tot a casa, si fa fare il controllo dei fumi, si sistema il campanello e si cambia la lavatrice, così accade in un sito web, Google modifica costantemente la sua richiesta per le performance, perché il pubblico è sempre più esigente.
Google

Ciliegina sulla torta per la reputazione online sta nel presidiare tutti i fattori esterni al sito web: dagli altri siti web che parlano di noi fino alla nostra comunicazione social, ricordandoci che abbiamo sempre più bisogno di fidarci, di conoscere i volti dietro un brand, di saperne le storie e sentirci vicini a quel modello. Google parla costantemente di EEAT – Esperienza Competenza Autorevolezza Affidabilità come valore intrinseco di un Brand che gode di ottima reputazione online, e c’è un solo modo per raggiungere “High Quality”: metterci la faccia, perché siamo esseri umani, empatici, e abbiamo bisogno di riconoscerci per acquistare.

Chiudo rispondendo ad una domanda importante

è possibile farlo velocemente, a buon mercato, utilizzando qualche risorsa interna a cui posso sganciare la patata bollente? La risposta è no.

Giulia Bezzi

Siamo in un mercato competitivo, sempre più ricco di contenuti, in cui aumentano le complessità e i canali di conversione, oltre ai touch point del nostro pubblico prima dell’acquisto. Il web non è per tutti e non lo è da un pezzo. Chi continua a farla facile sta prendendo in giro se stesso, i professionisti suoi colleghi, colui al quale venderà il proprio servizio e il potenziale pubblico che verrà, forse, a conoscenza del Brand.

Ho sempre pensato che se vogliamo avere una buona reputazione online dobbiamo cercare di essere irreprensibili, con una comunicazione affascinante, un sito web calamita e, se questo non possiamo permettercelo, allora è meglio stare in silenzio.

Con tutto l’affetto e la voglia di contribuire alla consapevolezza digitale vi lascio qui il mio “Quanto costa un progetto SEO” per farvi un’idea dell’investimento e vi abbraccio immensamente!

Avete sentito parlare di Visual Positioning System (VPS)?

Il VPS (Visual Positioning System) è una funzione di Google Maps che aiuta a superare le principali difficoltà del sistema di posizionamento globale (il caro “vecchio” GPS) e fornisce posizioni sempre più precise. Il VPS consente ad un dispositivo, come uno smartphone o un drone, di determinare la propria posizione e il proprio orientamento nel mondo fisico utilizzando indicazioni visive.

Utilizza algoritmi di computervision per analizzare le immagini provenienti da una fotocamera o da un altro sensore ottico e le confronta con un database di posizioni o caratteristiche note.
Potremmo “sfruttare” questo nuovo tools nel mondo advertising in tanti modi:

  • creazione di oggetti virtuali che interagiscono con gli utenti in tempo reale, come la visualizzazione di prodotti in diverse varianti o l’interazione con personaggi animati;
  • invito alla prova virtuale utilizzando la fotocamera del dispositivo mobile del cliente, per vedere come i prodotti si integrano negli ambienti (casa, ufficio, …);
  • posizionare banner pubblicitari virtuali su un muro di un edificio o un prodotto virtuale sugli scaffali di un negozio;
  • inviare annunci pubblicitari mirati in base alla posizione dei clienti, offerte speciali o promozioni ai consumatori che si trovano nelle vicinanze di un determinato punto vendita;
  • creare esperienze immersive come tour virtuali di un negozio o di un’esperienza di acquisto online, consentendo agli utenti di esplorare gli oggetti virtuali in modo interattivo e sempre più “realistico”.

Che ne pensate?

E’ arrivata FinGPT

Era questione di tempo ma è arrivat*: FinGPT è un progetto open source che vuole democratizzare i dati finanziari sparsi nel mare di internet per fornire a ricercatori e professionisti delle risorse per sviluppare FinLLMs (Financial Large Language Models) e costruire così nuovi prodotti finanziari.

Riuscire ad addestrare una rete neurale artificiale con molti parametri ha subito suscitato un notevole interesse nel campo finanziario.
Tuttavia, l’accesso a dati finanziari di alta qualità rappresenta una delle sfide più grandi per i FinLLMs.

Mentre modelli proprietari come Bloomberg GPT sfruttano i dati proprietari, FinGPT adotta un approccio centrato su dati liberamente accessibili.

Su quali fonti online si basa FinGPT?

  • Notizie finanziarie: siti come Reuters, CNBC e Yahoo Finance sono ricchi di notizie finanziarie e aggiornamenti di mercato.
  • Social media: piattaforme come Twitter, Facebook, Reddit, Weibo e altre offrono una vasta quantità di informazioni in termini di sentiment pubblico, argomenti di tendenza e reazioni immediate alle notizie finanziarie.
  • Dati societari: i siti delle autorità di regolamentazione finanziaria, come la SEC negli Stati Uniti, offrono accesso alle dichiarazioni delle società.
  • Tendenze: siti come Seeking Alpha, Google Trends e altri blog con focus sulla finanza forniscono accesso alle opinioni degli analisti, alle previsioni di mercato, al movimento di titoli specifici o segmenti di mercato e a consigli di investimento.

Le potenziali applicazioni di FinGPT e FinLLMs

  • Consulenza
  • Trading algoritmico
  • Analisi finanziaria
  • Gestione del portafoglio
  • Valutazione del rischio

Questo è solo l’inizio. Essendo open source, FinGPT continuerà a stimolare l’innovazione, democratizzare i FinLLMs e sbloccare nuove opportunità nell’ambito dell’open finance.

Ci si potrà fidare? Sicuramente non adesso, ma in un futuro…

Il progetto è (stato) sviluppato dalla Columbia e New York University (Shanghai). Cosa c’è di meglio di un video per capire al volo? Eccolo: https://www.youtube.com/watch?v=CH3BdIvWxrA. Il sito principale di FinGPT: https://ai4finance-foundation.github.io/FinNLP/#iii-models

Contatti su LinkedIn? Non ci sono amici

Il titolo è un po’ forte lo so. Lo spunto arriva da una domanda che mi hanno fatto qualche giorno fa durante un corso (grazie Make It So – Formazione & Consulenza). “Dovrei aggiungere i miei amici ai miei contatti LinkedIn?”. Argomento delicato, nel rispondere si rischia di essere male interpretati. Proviamo a ragionare.

I contatti su LinkedIn devono (dovrebbero):

  • essere utili dal punto di vista professionale
  • aiutarci a raggiungere l’obiettivo
  • portare a possibili sviluppi

L’interesse reciproco può nascere per:

  • uno scambio di conoscenze
  • cerco qualcosa che tu mi puoi offrire
  • posso aiutarti con le mie competenze
  • nella tua rete puoi presentarmi qualcuno

E potremmo continuare…

Se cerchiamo lavoro gli amici FORSE sono un ponte verso qualcuno che può offrirci un lavoro (come dice Mark Granovetter ne “La Forza dei Legami Deboli”). Ma in tutti gli altri casi per me la risposta è no.

Se non ci sono interessi professionali, gli amici su LinkedIn non dovresti aggiungerli. Quale vantaggio potrei avere dall’aggiungere l’amico con cui il Venerdì bevo lo spritz?

Può sembrare un ragionamento egoista ma secondo me non lo è.
Non siamo su LinkedIn per passare il tempo ma per investirlo.

Ci relazioniamo con le persone per ragioni professionali, l’amicizia è qualcosa che può arrivare di conseguenza. Anzi è auspicabile che ciò avvenga, renderebbe i rapporti professionali molto più semplici.

Non ho la verità in tasca, questo post è solo un modo per aprire un dibattito. Mi piacerebbe tanto conoscere la tua opinione.