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Cosa è la geoarchitettura? Lo spiega l’Arch. Paolo Portoghesi

Cosa è la geoarchitettura, quali sono i suoi principi fondanti? Ce lo spiega l’Arch. Paolo Portoghesi in questo articolo preparato per il suo intervento al Digital Day 2018.

Premetto che io sono ottimista, apprezzo molto le conquiste della tecnologia per quegli aspetti che hanno un cambiato la nostra vita e promettono di cambiarla ancora in meglio. Ma sono anche altrettanto interessato agli aspetti negativi. Cioè ai rischi che questa trasformazione del mondo che sta venendo sotto i nostri occhi possa portare conseguenze negative.

Quindi sono convinto che sarebbe assurdo chiudere gli occhi e rifugiarsi nel passato. Pensando che tutto ciò che c’era è meglio di ciò che c’è e ci sarà. Dobbiamo sperare invece che si possa sempre migliorare. Ma essere consapevoli che negli ultimi tempi insieme ad alcune grandi conquiste ci sono state delle terribili perdite.

Paolo Portoghesi geoarchitettura
Cosa è la geoarchitettura e quali sono i suoi principi fondanti? Ce lo spiega l’arch. Paolo Portoghesi

Meno Archistar e più attenzione all’ambiente

Io credo che l’architettura negli ultimi decenni sia stata un po’ espressione dell’individualismo violento, caratteristico di questa società del consumismo.

E’ diventata oggetto di consumo, oggetto di propaganda per multinazionali, per i grandi poteri, ma anche per gli stessi architetti. Tanto che sono nate le famose “Archistar”. Una ventina di persone che nei propri studi riescono ad accumulare il 60% del lavoro importante che si realizza sulla terra.

Questo  è un aspetto sicuramente negativo, sarebbe meglio se ci fosse una maggiore distribuzione e probabilmente potremmo fare a meno di questi divi dell’architettura. Se avessimo molti tecnici che riescono a costruire un’architettura che non danneggi l’equilibrio dell’atmosfera.

La geoarchitettura

E’ un obiettivo che ormai da una ventina d’anni ci si pone, e che io ho chiamato geoarchitettura. Partendo dal principio che oggi attraverso la globalizzazione abbiamo una responsabilità che non riguarda soltanto quel pezzo di terra a cui lavoriamo ma il mondo intero. 

Ma se non si interviene a livello globale non si possono combattere i pericoli dello sviluppo tecnologico che si presentano per il futuro.

Io continuo ad insegnare perché penso che non tutti i giovani sono consapevoli di questa responsabilità dell’architettura. Quindi cerco di far capire loro che da una parte bisogna utilizzare tutti gli strumenti nuovi che sono a nostra disposizione. Dall’altra dobbiamo renderci conto dei rischi che corriamo.

Lavoro e identità

Qualcuno pensa che nella società futura verrà abolito il lavoro. Probabilmente questo avverrà tra 2 o 300 anni, ma in questo periodo intermedio questa sostituzione della macchina all’uomo ha un costo spaventoso: la disoccupazione.

E’ terribile ma è una realtà, per ogni automa che si costruisce un centinaio di lavoratori restano a casa, senza lavoro. Si, certo il reddito di cittadinanza potrebbe risolvere questo problema, ma la perdita di lavoro non è soltanto un problema economico.

Risolverebbe forse il problema economico ma creerebbe questo terribile problema della perdita di identità. Perché senza il lavoro non si acquista la propria identità. 

E’ il lavoro, la scelta di quello che si vuole fare che determina la crescita, determina la maturazione dell’individuo allarga in un certo senso il cervello.

Se tutti quanti si accontentassero dei videogiochi o di fare delle passeggiate in campagna nella migliore delle ipotesi avremmo certamente delle persone meno problematiche. Ma secondo me avremmo persone ancora più infelici.

Perché le grandi soddisfazioni della vita sono legate proprio al lavoro, sono legate a quello che uno fa, che costruisce con le proprie mani.

Abitare poeticamente

In questo il lavoro dell’architetto e l’architettura è di fondamentale importanza. Perché è lo strumento che consente all’uomo di abitare, nel senso più completo della parola. Perché un uomo che sta solo sulla terra, alla mercè delle insidie dell’atmosfera, non è ancora se stesso. Diventa se stesso quando si costruisce una casa.

Gli architetti dunque, piuttosto che pensare di diventare delle archistar, dovrebbero pensare di diventare delle persone che aiutano gli altri ad abitare, ad abitare poeticamente direi.

Ecco forse l’obiettivo che si possono dare gli architetti è consentire all’uomo moderno di abitare poeticamente. Che cosa significa abitare poeticamente lo lascio al lettore, poichè è una cosa molto difficile da definire.

Ciascuno di noi sa cosa vuol dire leggere una poesia, sa che vuol dire ritrovare la poesia negli avvenimenti quotidiani. Alcuni aspetti fondamentali della cultura sono proprio il risultato della poesia.

In questo ritroviamo le ragioni della georchitettura: cercare di combattere i rischi di ciò che sta avvenendo in tutto il mondo.

Una architettura della responsabilità

Naturalmente gli architetti, responsabili di molti aspetti negativi della situazione attuale, dovrebbero mobilitarsi.

Oggi siamo in un mondo in cui la politica ha perso molto del suo fascino. Quando io ero giovane impegnarsi politicamente era sentito come un dovere e naturalmente c’era un lavoro politico si lavorava nelle sezioni dei partiti. Si discuteva fino a notte inoltrata certe volte, su questioni che riguardano la vita sociale.

Oggi la gente si interessa di politica solo quando deve votare. Il rilancio di una architettura della responsabilità è legato anche alla presenza politica degli architetti nella società. Cioè al fatto di contribuire a creare una condizione culturale nuova che è indispensabile. 

Non si tratta soltanto di una visione idealistica, di una visione utopica, si tratta di una visione concreta. Se noi non interveniamo in qualche modo la terra diventerà inabitabile.

Se uno ha la pazienza di guardare sul web la prospezione tra 50 anni di come potrebbe essere il nostro stivale si accorge ad esempio che Venezia sarà sott’acqua.

E tutto questo è la conseguenza dell’aumento della temperatura, dello sciogliersi dei ghiacciai, ecc.. Questa non è una favola, sta avvenendo. E’ ormai di fronte ai nostri occhi, qualcosa che possiamo e dobbiamo combattere. Se non per noi per i nostri figli.

Uno dei fondatori dell’architettura moderna, William Morris diceva: “Stiamo attenti perché noi rischiamo di lasciare ai nostri figli una terra impoverita rispetto a quello che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri padri”.

Questa constatazione che era drammatica già alla fine dell’800 oggi è molto molto più drammatica! Certo noi consegniamo una terra in cui è più facile vivere, in cui c’è maggior efficienza, in cui ci si muove meravigliosamente e velocemente. Ma una terra che si lamenta, una terra che sta emettendo un grido di dolore.

Geoarchitettura: requisiti fondamentali

Parlando di geoarchitettura non ho indicato quelli che sono i requisiti fondamentali:

  • imparare dalla natura, perché la natura ci insegna ad esempio ad economizzare, ad utilizzare ciò che è indispensabile, praticamente ci insegna la coerenza e nello stesso tempo ci insegna la bellezza, che è un mistero che però l’uomo molto spesso riesce a raggiungere;
  • imparare dalla storia, non dimenticare il passato, cercare di evitare soprattutto gli errori che sono stati fatti nel nostro passato;
  • attuare l’innovazione, quando questa risolve un problema. Non bisogna accontentarsi di ciò che abbiamo, meno che mai guardare al passato con nostalgia come se si potesse tornare indietro, indietro non si va, si può andare sotto avanti.
    L’innovazione è un’esigenza fondamentale dello spirito. Oggi l’innovazione ci consente di progettare in tre dimensioni, cioè se noi facciamo un modello tridimensionale delle cose che stiamo progettando possiamo entrarci dentro vederlo da lontano da vicino. Oggi si fa un unico modello e lo si guarda dentro e fuori da qualunque distanza.
    Una conquista di importanza determinante, perché oggi un architetto non ha nessuna scusa se fa un edificio che non ha una sua profonda unità!

Responsabilità comune

A che serve l’innovazione? Serve ad essere più efficiente nello sconfiggere lo squilibrio che l’uomo ha creato proprio attraverso l’innovazione! Bisogna a questo punto capire che l’innovazione è necessaria ma non deve essere fine a se stessa. Se è fine a se stessa e non risolve uno dei grandi problemi dell’uomo vuol dire che non è vera innovazione.

Io credo che ci sono due modi di sfuggire alla grande responsabilità che abbiamo:

  • una è quella di lodare gli sviluppi tecnologici e la società del futuro senza alcuna capacità critica;
  • l’altra è rifugiarsi nel passato, pensando che si possa tornare indietro.

Non sfuggire a questa responsabilità è compito di tutti noi.

Dove è Internet? La struttura fisica di quel magico World Wide Web

Dove è Internet? Un po’ di anni fa, mio padre che mi vede come un Salvatore Aranzulla tascabile, mi chiese aiuto per caricare delle foto sulla più famosa piattaforma social. Dopo averlo interrogato sul problema mi rispose: “Voglio caricare delle foto su Facebook ma non voglio che le veda nessuno!”

Ridendo, sottolineai l’ossimoro ma mi sorse il dubbio che gran parte degli “adulti” non fossero del tutto consapevoli di cosa stavano facendo sul web. Oggi è ancora così?

Il nostro rapporto con la Rete

“Lo metto sul cloud”. “Carico questo selfie su internet”. “Ero su internet e ho visto…”. Espressioni quotidiane che abitano anche i vicoli dei borghi italiani più sperduti. Sì proprio quelli fatti interamente di tufo, dove internet non prende.

Considerare internet come un luogo è ormai scontato, il linguaggio ne è solo un sintomo. Sempre di più siamo stati spinti dall’entusiasmo e abbiamo caricato documenti online. Perdendo di vista il vero significato di questa azione.

Eppure sembra tutto chiaro. Basti pensare che da quando è stato inventato, agli inizi degli anni sessanta, in piena guerra fredda, il web ha avuto un unico obiettivo: connettere tutti i computer del mondo tra di loro. I computer, non le persone.

Per quanto siano poi le persone ad interagire, la rete permette esclusivamente ai computer di scambiarsi informazioni attraverso cavi lunghissimi, di rame o di fibra ottica.

“Ah, come il telefono!” Non proprio. Prima nel telefono l’informazione veniva trasportata in modo immediato e quindi non veniva depositata. Adesso nel web invece l’informazione viene sempre depositata dentro un altro computer.

Internet non è l’etere che circonda il pianeta come una gigantesca wi-fi

Le foto sul cloud, quelle delle vacanze anche quelle dei social, si trovano in questo momento in una stanza piena di computer, o meglio server, con l’aria condizionata.

I data center, sono edifici dove quasi tutti i piani sono adibiti ad ospitare quantità enormi di dati che arrivano da internet e che appartengono a computer molto distanti.

Questi centri sono di proprietà di aziende private, solitamente aperte a questo scopo, e grazie a loro internet può essere vastissimo, quasi illimitato.

Un esempio sarebbe potuto essere Google, che nel 2015 contava di possedere così tanti server da disporre di 10 miliardi di gigabyte. Ma oggi è sicuramente Amazon a dominare il campo. Disponendo di più di 2 milioni di server sparsi per il mondo. La compagnia di Jeff Bezos si è specializzata così tanto da avere tra i suoi clienti agenzie di tutte le dimensioni. Ed ha da poco siglato accordi con Netflix e CIA per l’affitto di “spazio internet”.

Dove è internet
Dove è internet? Internet non è l’etere, ma un computer in un edificio da qualche parte negli USA… Photo credit: Akela999 by pixabay

Si può facilmente capire a questo punto che tutto internet è contenuto dentro a molti computer. E che non può esistere senza di essi. Le foto caricate su Facebook sono su un computer di proprietà dell’azienda negli USA e a nessuno è dato sapere quante copie dei file vengono salvate dalla piattaforma. E spesso non ci è concesso di cancellarle completamente.

Internet può essere un luogo. Ma è importante capire che esso risiede in ogni sua parte su dei computer sparsi per il pianeta e non al sicuro in qualche magica sostanza che fluttua nel cielo. Procedendo con cautela, quando si condivide qualcosa di privato sul web, si può evitare di cadere dalle nuvole o dai clouds.

Digital Day – 6 Dicembre Unitus Viterbo!

Al via la seconda edizione del Digital Day – 6 Dicembre Unitus Viterbo. Quest’anno nel corso del pomeriggio, dalle ore 15.00 (Aula 12 – Via Santa Maria in Gradi), andremo alla scoperta di come il digitale sta modificando la nostra società.

Argonauti nella noosfera

DIGITAL DAY – 6 Dicembre ore 15:00 – UNITUS

Ne parlano:

  • Paolo Portoghesi Architetto, docente di geoarchitettura all’Università La Sapienza, membro dell’accademia dei Lincei – Verso una nuova geoarchietettura
  • Mario Pacelli – Docente Universitario Diritto e Storico delle Istituzioni –La democrazia al tempo del digitale
  • Aldo Di Russo – Responsabile dei progetti culturali di Artifactory – L’anello mancante: la rivoluzione digitale tra beni culturali e industria creativa
  • Maurizio Primanni – Fondatore e CEO di Excellence Consulting – Da Montesquieu a Blockchain: come l’intreccio digitale/finanza contribuisce a creare il “quarto potere”
  • Alberto Pasquini – Fondatore e Presidente di Retail Design Italy – Retail ibridation! Dal negozio fisico al digitale con empatia.
  • Sergio Bellucci – Giornalista, saggista, scrittore, esperto nei processi di trasformazione digitale – La crisi come Transizione. L’emersione di una nuova formazione economico-sociale e nuovi rapporti di produzione.
  • Nicoletta Iacobacci – Ethics HyperLeader, Hyperloop Transportation Technologies
    Executive Board Member, Women’s Brain Project Professor Webster University Geneva end Jinan University, Guangzhou, China – L’etica e le tecnologie esponenziali: prendere coscienza delle implicazioni positive e negative del progresso.
  • Gino Roncaglia – Filoso, saggista, professore associato e direttore del Master universitario in e-Learning Unitus Viterbo – Il digitale tra frammentazione e complessità
  • Mario Pireddu – Professore associato, Presidente del Corso di Laurea Magistrale in “Informazione Digitale”, UNITUS – Il ruolo della formazione per la cittadinanza digitale

Coordina l’incontro Giampaolo Sodano – Giornalista, manager televisivo e Direttore di Moondo.info

CONFERMA LA TUA PRESENZA, SCARICANDO GRATUITAMENTE IL TUO BIGLIETTO, CLICCA QUI!

Argonauti nella Noosfera*

Quando finalmente la nave Argo approda sulle coste elleniche, gli argonauti si rendono conto che al termine di quell’avventura non portano con sé solo il prezioso e magico vello d’oro. Ma ognuno ha acquisito doni più grandi come la coscienza dell’essere e la conoscenza dell’ignoto.

*Noosfera deriva dal vocabolo greco “Nous” che indica la mente, l’intelletto umano, per Noosfera si intende la complessità dell’intelligenza umana sul pianeta.

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Nuovi saperi stanno trasformando radicalmente i rapporti tra gli uomini e tra uomo e macchina. Il computer è diventato il nostro secondo cervello, fonte d’informazione e luogo della memoria.

La comunicazione tra computer in rete ha creato nuova intelligenza e ha distribuito conoscenza. Determinando una reazione a catena che sta modificando il nostro stile di vita.

Abbiamo dovuto imparare a dialogare con il computer, una nuova alfabetizzazione. Poi è arrivata la rete, che non è un medium, non è un surrogato di tv e giornali, non è comunicazione, è un modo di vivere. I social ne sono l’esemplificazione più evidente.

Come argonauti digitali vi proponiamo un viaggio. Un viaggio fantastico nei nuovi spazi della conoscenza e della comunicazione: alla scoperta di come il digitale sta modificando la nostra società.

Digital Day 2018
Digital Day 2018

Globalizzazione digitale

I nuovi paradigmi non riguardano nuove tipologie di software ma l’incremento esponenziale del numero di utenti e la riaffermazione del web come piattaforma universale per la circolazione di contenuti.

Questo è lo tsunami che sta sconvolgendo il mercato e la società nel suo complesso. Il gorgo da cui prende forza il turbine: una comunità sempre più preparata, ambiziosa, pretenziosa e intraprendente che non accetta più i limiti di schemi chiusi.

La rete non è comunicazione, è relazione sociale. La vera, grande, profonda ed inevitabile rivoluzione del nuovo millennio è la contestualità di globalizzazione e digitale. Un nuovo scenario e nuovi poteri tanto forti quanto autonomi.

Tracciare nuove vie?

Viviamo un momento storico per alcuni versi straordinario, per altri versi traumatico. I ritmi accelerati del cambiamento sconvolgono le strutture socioeconomiche delle nazioni e determinano situazioni critiche per milioni di persone colpite dallo “choc del futuro”.

Proprio il trauma ed il disagio nella terra degli argonauti erano thaumazein un disequilibrio che provocava una krisis. Parola che per qualche strano prodigio della storia per noi indica disagio e sgomento, mentre in quelle terre era la forza che poteva indurre l’uomo a trovare la strada verso un avvenire migliore.

La logica SEO

Cosa c’è dietro la logica SEO? Da qualche anno a questa parte sentiamo sempre più spesso parlare di “SEO”. Questa è una logica che sta permettendo il successo e lo sviluppo di moltissime aziende. Imprese che vedono crescere i propri introiti derivare dal corretto utilizzo di questo strumento.

Ma che cos’è la logica SEO?

Semplicemente, tutto quello che possiamo mettere in pratica per conquistare posizioni sulla cosiddetta “SERP”. Ovvero la nostra pagina di ricerca sui browser. Infatti, letteralmente “SEO” sta per “search engine optimization”. Dunque ottimizzazione per i motori di ricerca. In linea di massima una buona strategia SEO permette all’azienda interessata di comparire tra i primi risultati in una ricerca su browser (ad esempio Google, Bing ecc.).

Tutto questo è indispensabile per il successo di un’azienda. Perchè? Beh, essenzialmente per la nostra pigrizia… Secondo una nutrita quantità di studi l’utente tende infatti a considerare conclusa la sua ricerca “accontentandosi”, o ritenendosi soddisfatto, di quanto è riuscito a trovare nelle prima o (raramente) seconda pagina di risultati sul motore di ricerca.

Volendo fare un esempio: se vivessimo a Roma e dovessimo gestire un hotel, alla ricerca di un ipotetico utente che digita “hotel a Roma”, dovremmo assicurarci che il link del sito della nostra azienda compaia nei risultati sulla pagina del motore di ricerca prima delle altre migliaia di hotel (dotati di un sito) presenti a Roma.

Primi accenni alla logica SEO

Tutto questo viene fatto grazie a specifiche parole chiave che, se scelte correttamente, consentiranno agli algoritmi del motore di ricerca di operare una maggiore quantità di “match”. Intendendo per match le comparazioni e sovrapposizioni tra le parole contenute nella ricerca dell’utente, con quelle contenute nei “tag” e nei “meta-tag” del nostro sito.

Il discorso dei tag meriterebbe un ragionamento a parte. Ma per fornire un ventaglio di nozioni generali basti sapere che più saggiamente sono scelte le parole (dunque facendo sì che possano rappresentare nel modo più semplice, veritiero e preciso possibile l’identità e gli obiettivi della nostra azienda), più possibilità il nostro sito avrà di comparire tra le prime posizioni nei risultati di ricerca del nostro utente.

logica SEO
Primi rudimenti di logica SEO. Photo credit: Simon by Pixabay

Ovviamente, i motori di ricerca danno la possibilità di pagare una quota in denaro per assicurarsi un posizionamento più favorevole degli altri. Infatti, per le ricerche più comuni possiamo notare, tra i primi risultati, gli annunci sponsorizzati. Ovvero spazi appositamente comprati dall’azienda di riferimento per comparire prima degli altri competitors. In pratica si paga per “saltare” alcune posizioni. Tuttavia, per quanto si possa pagare, nulla equivale ad una scelta corretta di tag.

Comparire prima di altri nelle ricerche non basta!

Una volta posizionati in alto, c’è bisogno che la descrizione del nostro sito sia accattivante. Questa breve descrizione, posizionata subito al di sotto del link al sito, è chiamata “snippet”. Lo snippet è generalmente composto da un minimo di 110 fino ad un massimo di 160 caratteri. 

Fare in modo che lo snippet del sito sia accattivante equivale ad avere maggiori chance di essere scelti nella ricerca. E questo è solo un esempio di come, nel contesto del mercato on-line, le logiche del marketing siano fondamentali per avere successo.

Gli effetti della digitalizzazione sulle nuove generazioni

Quali siano gli effetti della digitalizzazione sulle nuove generazioni è argomento ancora da approfondire. Che gli artefatti digitali abbiano un potenziale immenso per quando riguarda il perfezionamento di alcuni attività cerebrali lo avevano già capito gli americani. Tanto che dagli anni ‘80 hanno iniziato un programma di addestramento fondato su quelli che sono sostanzialmente versioni “tecniche” dei videogames. Immaginate quindi l’importanza di una buona padronanza occhio-mano oggi. Un’epoca in cui un drone da guerra è pilotabile (ed effettivamente fanno proprio così) tramite il joypad, adeguatamente adattato, di una normalissima Playstation.

Effetti delle digitalizzazione
Effetti delle digitalizzazione sulle nuove generazioni: negativi o positivi? Photo credit: PepaLove by Pixabay

Gli effetti della digitalizzazione

Dato l’evidente potenziale in positivo dell’attività videoludica, vale la pensa spezzare una lancia a favore di chi, come i miei genitori, ancora ritiene che i videogiochi, il computer, il cellulare e quant’altro abbiano invece un effetto deleterio. In particolare sulle generazioni più giovani.

Da un lato, dopo aver studiato comunicazione, sia scritta che visiva, mi è parso evidente un fattore. Ovvero la brutalizzazione del linguaggio che stanno subendo, sia la lingua che la cultura visiva, dovuta ad un eccessivo indirizzamento da parte dei creatori di contenuti.

In altre parole coloro che si occupano di creare siti internet, social network, applicazioni, tenendo ovviamente di più al profitto personale che al benessere dei consumatori, progettano apparati sempre più intuitivi. In cui è l’architettura del sito o dell’App a guidare l’utente, di solito verso la sezione “acquisti”.

Attività videoludica: fa bene o male?

In questa maniera si mette in atto un processo Darwiniano. Per cui le capacità meno utili (come la lettura approfondita) tendono a sopperire. A favore delle capacità più adatte a sopravvivere (come riconoscere la funzione di un pulsante in base alla forma o al colore).

Non stupisce a questo punto che in Italia sia arrivata quasi al 30% della popolazione la percentuale di analfabati funzionali. Cioè quelle persone che sanno leggere ciò che gli viene posto di fronte ma che in realtà non riescono ad afferrarne il significato.

Pubblicità implicita ed emozionale

Altro fattore deleterio, sempre collegato a questo progressivo rendersi superficiale della comunicazione, è l’incapacità, da parte degli utenti, di riconoscere i messaggi impliciti. Veicolati da artefatti come le pubblicità.

Ovviamente gli studi di marketing e pubblicità ne sono consapevoli già da tempo e non esitano a farci leva, sempre per incrementare le entrate. Il sociologo Vance Packard, nel suo libro “I persuasori occulti”, fa una splendida analisi di come in America, a partire dagli anni ‘20, abbiano imparato a gestire aspetti consapevoli e inconsapevoli dell’atteggiamento dei consumatori. Calcando su quelli che si chiamano “bisogni latenti”.

La prossima volta che lo spot di un prodotto vi attira, cercate di fare caso a cosa l’azienda sta tentando di vendervi in realtà. Uno status sociale (Apple), un’emozione (Red bull), la bellezza (Chanel), l’eleganza (Armani)?

Utenti digitali: scambiare il medium per il messaggio

L’ultimo aspetto evidente, ma non ultimo per importanza, che condiziona l’atteggiamento degli utenti digitali è invece più Pavloviano. Ovvero più direttamente collegato ad aspetti fisiologici del cervello umano: scambiare il medium per il messaggio.

Questo significa che tendiamo a sviluppare un’affezione, in realtà immotivata, verso quegli strumenti che si fanno veicolo delle nostre gioie quotidiane.

Non vi è mai capitato di provare un insensato dispiacere al momento di sostituire il vecchio cellulare? Questo è perché il cervello umano, ancora abituato ad un mondo che segue le normali leggi di natura, si affezione a quel colore. Quella forma, che tante volte ci ha emozionato (il messaggio dalla persona che ci piace), ci ha fatto compagnia (la nostra musica preferita) o semplicemente ci ha tolti dai guai (chiamare mamma!).

Non sono meccanismi scontati, nè tantomeno meccaniche che si tende a portare alla luce del sole, perchè un utente inconsapevole è più facile da condizionare e da guidare all’acquisto. Perchè l’acquisto è la regola generale della nostra società.

E’ importante però prenderne consapevolezza, specialmente per i più giovani, che purtroppo sono il bersaglio preferito dalla maggior parte delle aziende di consumo.

GoDaddy Talks 2021: incontriamo Arianna Ortelli di Novis Games

E’ in programma Venerdì 8 ottobre alle ore 17.00 l’ottavo appuntamento dei GoDaddy Talks. Ospite dell’incontro è Arianna Ortelli, classe 1996, dal 2018 co-founder e CEO di Novis Games, azienda innovativa e ad impatto sociale che vuole rivoluzionare il mondo del gaming, rendendolo completamente accessibile a persone cieche ed ipovedenti.

Tutti i GoDaddy Talk sono gratuiti e fruibili dalla pagina Facebook di GoDaddy.

Cosa sono i GoDaddy Talks

I GoDaddy Talks sono una serie di interviste con i principali protagonisti dell’imprenditoria digitale italiana. Un modo per conoscere da vicino il modo di operare di una startup, o per capire meglio quali sono i fattori di successo di un imprenditore digitale. Sicuramente un’occasione per comprendere meglio questa rivoluzione digitale che sta cambiando per sempre il nostro modo di vivere e lavorare.

In particolare Arianna ci farà scoprire la sua azienda, Novis Games. Ci illustrerà la sua missione ed in che modo l’accessibilità può essere motore di innovazione. Infine ci aiuterà a capire come Novis Games utilizza la comunicazione online ed il suo sito web per rivolgersi agli utenti e qual è l’importanza di creare un team che abbia un obiettivo comune.  

Conduce l’intervistata Veronica Benini (alias @Spora), imprenditrice digitale e consulente strategica di business e comunicazione, che insieme ad Arianna cercherà di raccontare un settore fondamentale dell’economia digitale, quello degli e-game.

Gli e-game, un business in continua crescita

Solo qualche numero per inquadrare meglio un settore che a qualcuno potrebbe sembrare “di nicchia”:

  • il numero più incredibile di tutti è quello raggiunto da Youtube Gaming: nel 2020 sono state viste 100 miliardi di ore di video dedicati ai videogame e agli esports;
  • sul sito di Euronics in occasione del Natale 2020 si è registrato un «picco» di 100.000 persone in fila per comprare la Playstation 5.
  • 5 miliardi di dollari è la valutazione preliminare per la quotazione in borsa al Korea Exchange della società Krafton, produttore di PlayerUnknown’s Battlegrounds (meglio noto come PUBG).
  • 62 miliardi sono le ore viste, nel trimestre aprile-giugno 2021 su Twitch (piattaforma regina degli eSports e regno degli streamer, un +31% rispetto al 2020).

L’appuntamento da non perdere, aperto a tutti e gratuito, è allora per Venerdì 8 ottobre alle ore 17.00 sulla pagina Facebook di GoDaddy!

Chi è GoDaddy

GoDaddy è uno dei fornitori di hosting, e domini, più famosi del mondo, nato nel 1999 da allora ha iniziato una inesorabile scalata nel mercato mondiale, offrendo servizi sia per gli hosting che per la fornitura di domini.

GoDaddy gestisce la piattaforma cloud più grande del mondo, con una particolare specializzazione verso le aziende indipendenti di piccole dimensioni. Oggi GoDaddy vanta oltre 20 milioni di clienti in tutto il mondo ed 80 milioni di nomi di dominio in gestione.

E-sport (Electronic Sport): cosa sono e perchè sono un business

Negli ultimi anni si sta affermando il fenomeno di massa degli E-sport (electronic sports) o letteralmente sport elettronici.
Per alcuni di voi questo connubio potrà sembrare azzardato. Mentre per un numero sempre più grande di persone ormai questa è una realtà consolidata e quasi ovvia.

Ormai da qualche anno, infatti, è sempre più comune vedere dei grandi tornei internazionali, con giocatori che arrivano da ogni parte del mondo e spettatori che riempiono palazzetti e intasano siti di streaming… per vedere i loro beniamini giocare. Giocare a cosa? Alla consolle! Parliamo infatti di sport elettronici, in cui spesso il beniamino non è neanche il giocatore, ma il personaggio digitale!

E-sport, un fenomeno “vecchio” esploso negli ultimi anni

Il fenomeno però non è una trovata recente, già nel 1980 la Atari organizzò uno dei primi tornei videoludici. Disputato sul videogioco iconico Space Invaders, vi parteciparono circa 10.000 persone, un numero incredibile per i tempi. Mentre i primi tornei che hanno fatto la loro comparsa sui canali tv sono arrivati intorno agli anni 90. Insieme alla nascita della Cyberathlete Professional League (CPL).

Oggi i tornei hanno montepremi elevati, molto spesso infatti la squadra vincente si porta a casa più di un milione di dollari! Addirittura, come nel caso di Dota 2, si arriva alla stratosferica somma di 20 milioni di montepremi! E non importa il gioco, ma la sfida. Esistono infatti tornei di Fifa, Nfl, Nba, ma anche di Call of Duty, Unreal Tournament, Overwatch… L’importante quindi è sfidarsi, il campo da gioco lo si può scegliere in seguito.

E-sport
E-sport, un fenomeno in continua crescita: 2,96 miliardi di dollari entro il 2022. Photo credit: sik-life, by Pixabay

Gaming: un’industria da 2,96 miliardi di dollari entro il 2022

Da un rapporto di Deloitte Global, possiamo notare come l’indotto di questa industria sia passato dai 400 milioni del 2015 ai circa 600 del 2016 e secondo Goldman Sachs arriverà alla cifra di 2,96 miliardi entro il 2022.
Una crescita che nel mercato tradizionale non si vedeva dai tempi dell’invenzione del motore a scoppio. 

Ma non è solo un fenomeno economico, nel 2014 Rob Pardo, uno dei creatori di World Of Warcraft ha infatti proposto che gli E-sport fossero inseriti tra gli sport ufficiali dei giochi olimpici. Ipotesi presa in considerazione ufficialmente nel 2017 dal Comitato Olimpico internazionale. La decisione sarà presa dopo i giochi di Tokyo 2020.
Se tutto andrà per il verso giusto vedremo i primi medagliati “digitali” già alle olimpiadi di Parigi 2024?

Qualsiasi videogioco è un E-sport?

Non proprio, solitamente i giochi che rientrano in questa categoria sono giochi multiplayer, coma gli FPS, i MOBA o gli RTS in cui i giocatori si affrontano in squadre o in sfide 1 contro 1. Anche se esistono delle categorie competitive per i giochi single player, che per altro sono state le prime a nascere. La classifica che compariva alla fine delle partite di Pac Man vi ricorda nulla?

La cosa che accomuna tutte queste tipologie di giochi è la possibilità di fare partite in squadra. Mentre le abilità che devono avere i giocatori sono diverse, in relazione al tipo di gioco e di ruolo scelto. Anche se la coordinazione occhio-mano, il problem solving ed il sincronismo con altri giocatori della propria squadra sono capacità comuni a tutti i videogiocatori di un certo livello.

Il campione di E-sport è considerato alla stregua del campione reale

L’Esport è diventato per molte persone un vero e proprio lavoro. Non solo i giocatori professionisti ormai hanno dei veri e propri team che lavorano per loro, ma attorno alle squadre più grandi e famose ruota un ecosistema di sponsor e tifo. Dando così la possibilità a molte persone di trasformare la loro passione in una professione. Negli USA ai giovani più talentuosi viene addirittura data la possibilità di accedere a borse di studio specifiche.

Abbiamo capito quindi che il mondo delle competizioni digitali è molto vasto, specifico e dettagliato. Una serie di microcosmi che, come abbiamo visto, non sono poi tanto “micro”.

Nei prossimi articoli avremo modo di affrontarne alcuni nel dettaglio e capire perchè il gaming sta riscuotendo sempre più successo e perchè alcune capacità che permette di sviluppare si riveleranno sempre più utili, dal campo ingegneristico a quello medico.

Glossario:
FPS: First Person Shooter
MOBA: Multiplayer Online Battle Arena
RTS: Real Time Strategy

Gig Economy: il datore di lavoro del futuro è un’App

Avete mai sentito parlare di “Gig Economy”? Sapete di cosa si tratta? Beh probabilmente dovreste, dato che gli esperti ritengono che entro il 2020 riguarderà il 40% dei lavoratori di un sistema economico consolidato come quello Americano.

“Gig economy”: la sua traduzione più comune è economia dei lavoretti o un mercato libero. Dove gli impieghi temporanei sono comuni e le aziende impiegano lavoratori indipendenti per occupazioni a breve termine.

Niente di troppo nuovo tutto sommato, in Italia già esistono esempi di questo nuovo mercato del lavoro.

Basti pensare a Uber, ai fattorini del cibo di Glovo, Foodora (etc.), che già da un po’ di anni sono presenti sul territorio. Utilizzati dai cittadini quotidianamente.

Gig economy
“Gig economy” o economia dei lavoretti… uber ne è l’esempio più conosciuto. Photo credit freestocks-photos, by pixabay

Caratteristiche della Gig Economy

Le caratteristiche comuni a tutte le aziende della gig economy è l’essere online. E svolgere il ruolo di intermediario tra il cliente ed il lavoratore indipendente. Da una parte garantendo qualità e sicurezza al cliente, dall’altra permettendo al lavoratore indipendente di raggiungere più clienti grazie al servizio fornito.

Proprio questo servizio è la chiave di volta del mercato dei lavoretti. Pensato per tutti è erogato unicamente attraverso l’App dell’azienda che diventa la sede fisica dell’impresa, o meglio il contatto con il mondo fisico.

Gig Economy e App

L’app rimane ancora il campo in cui si gioca la partita dell’innovazione. Un lavoratore, o una qualsiasi persona con del tempo libero, pin qualsiasi momento prendersi carico di un compito, svolgerlo ed esser pagato per averlo fatto. Unico requisito la registrazione all’app.

Lo smartphone, stavolta come una bussola puntata sul prossimo lavoro disponibile, si insinua tra le relazioni della nostra società. A volte “ottimizzandole” altre volte sostituendosi completamente a queste.

Non più il semplice passaparola e una raccomandazione per svolgere un lavoretto come un trasloco, appendere un quadro o fare la spesa. Adesso basta scorrere la lista delle persone disponibili su un’app. Questo allarga sicuramente il bacino di utenza e permette a più persone possibili di mettersi in contatto. Ma elimina una dinamica della nostra società e riduce il contatto umano, anche se dove è stato provato ha dimostrato il contrario. 

In sostanza l’universo digitale si sta dimostrando benefico anche per quelle attività che di tecnologico sembrerebbero non avere nulla, come appunto quella di “tuttofare”.

Il caso TaskRabbit

Il caso di TaskRabbit, un app made in Usa, ha sbaragliato la concorrenza. Abbandonando il mercato specifico come le consegne a domicilio di cibo o noleggio con conducente, per affrontare un mercato più vasto di lavoretti in generale.

Se c’è bisogno di una mansione da svolgere c’è un runner (letteralmente “corridore”) disposto a svolgerla. Basta scegliere dalla lista e dopo aver letto recensioni e “stelline” ricevute dall’operatore si può iniziare la mansione.

Una volta svolto il lavoro sarà il cliente a dare un voto alla prestazione e scrivere una recensione sul runner, che poi riceverà il pagamento sempre attraverso l’app.

TaskRabbit è online dal 2008 e dieci anni dopo può vantare già servizi esclusivi per i suoi “impiegati”, in grado di aiutare a svolgere meglio il proprio lavoro come tenere la contabilità e pagare le tasse, accedere ad assicurazioni sanitarie, noleggiare una macchina ed usufruire di tariffe telefoniche agevolate.

Quest’impresa ormai diffusa in 47 città americane, 4 città nel Regno Unito e una in Canada è diventata a tutti gli effetti un “super” datore di lavoro. Che garantisce se non i diritti dei lavoratori, quantomeno un accesso semplificato a questi.

In futuro il datore di lavoro sarà un’App?

Pratiche come quella di TaskRabbit potrebbero essere una cura al sistema del lavoro nostrano, sicuramente affetto da immobilismo, incapace di adattarsi ai nuovi tempi, alle nuove figure professionali e alle nuove mansioni.

Oggi un’app può diventare un centro per l’impiego. E funzionare meglio di qualsiasi legge, può essere un datore di lavoro e uno strumento per quantificare in denaro un lavoro, un lavoretto, una mansione o una prestazione.

Analfabetismo digitale

L’ analfabetismo digitale rappresenta uno dei più grandi problemi della società in cui viviamo. Si fa riferimento al gap di nozioni possedute nel mondo di oggi.

Riguarda la capacità di saper utilizzare, comprendere ed analizzare criticamente gli strumenti ed i fenomeni digitali. Questo gap può essere rappresentato semplicemente facendo riferimento ad una qualità sempre più comune nella nostra società: l’analfabetismo digitale.

Analfabetismo digitale: cos’è?

Per analfabetismo digitale (o informatico) si intende l’incapacità delle persone di operare mediante un computer, di leggere, scrivere e reperire criticamente informazioni in Internet. Il grado di analfabetismo digitale può variare a seconda delle proprie caratteristiche socio-demografiche e di contesto rispetto al luogo in cui si vive.

Un analfabeta digitale non è solo chi non conosce la tecnologia, ma anche l’individuo che ignora la terminologia di settore. Essendo questa ampiamente utilizzata da tutti i mezzi di comunicazione di massa.

Un fattore che può aumentare l’analfabetismo informatico è la tecnofobia: ovvero la paura o il rifiuto irrazionale verso ogni dispositivo tecnologico.  

Per uno stesso individuo, l’analfabetismo informatico può essere soggetto anche ad un cambiamento temporale: ad esempio, una persona può diventare analfabeta informatico a causa del rapido e costante avanzamento della tecnologia, o degli usi legati ad essa.

L’analfabetismo digitale può non essere percepito come un problema immediato per la persona che non nutre alcun interesse verso le nuove tecnologie, che non si informa sui cambiamenti di trend su scala globale.

analfabetismo digitale
Photo credit: mohamed_hassan by pixabay

Tipologie di analfabeti digitali

Esistono varie tipologie di analfabetismo digitale:

  1. pieno o assoluto: c’è una mancanza di qualunque tipo di conoscenza nell’utilizzo del computer o dispositivi digitali;
  2. relativo o funzionale: si è in possesso delle sole conoscenze basilari (oppure con il tempo avviene una perdita di conoscenze.

Indicatori di analfabetismo

Esistono vari tipi di indicatori che vengono utilizzati per valutare il grado di analfabetismo informatico:

  • la percentuale della popolazione che naviga in Internet;
  • il luogo e la forma di accesso a Internet;
  • la frequenza dell’utilizzo della rete;
  • la percentuale di abitazioni con accesso alla rete;
  • il numero di accessi pubblici alla rete;
  • la velocità di connessione e servizi disponibili;
  • il costo dell’accesso ad internet (traffico dati);
  • il costo dei computer e dei dispositivi digitali in genere;
  • la percentuale di utenti con problemi di sicurezza informatica;
  • il numero di computer e/o dispositivi collegabili alla rete ogni 1000 abitanti;
  • la percentuale di studenti e laureati in carriere relative all’informatica ed alla tecnologia;

Lo stato dell’arte in Italia

Secondo il rapporto Istat del 2009, in Italia oltre un milione e settecentomila giovani (!) tra i 15 e i 29 anni non hanno mai utilizzato un PC negli ultimi dodici mesi. Come già accennato, le caratteristiche socio-demografiche (quindi le differenze culturali e geografiche) influenzano questo dato.

La percentuale è quasi doppia nell’Italia Meridionale rispetto a quella settentrionale. E circa quattro volte superiore tra i figli di operai, rispetto a chi ha genitori manager o professionisti.

La mancata disponibilità di un computer in casa e di linee di connessione a banda larga rappresentano ulteriori ostacoli. La scuola sembra non riuscire a contrastare l’analfabetismo digitale in quanto, sempre secondo l’Istat, tra i 6 e i 17 anni, solo 4 ragazzi su 10 utilizzano il pc a scuola.

Imprenditori ed Internet in Italia

Dati che cambiano notevolmente se analizziamo le connessioni da mobile (smartphone e tablet). Stando a quanto sostiene Marco Bentivogli de Il Sole 24Ore, il problema dell’analfabetismo digitale esiste ed è serio.Secondo Infocamere 2/3 delle imprese non sono su Internet e 4 imprenditori su 10 dicono che «Internet è inutile», in tempi di rinvio di fatturazioni elettroniche, l’analfabetismo digitale mi preoccupa di più della Gig economy”.

Dare spazio all’alfabetizzazione digitale permetterebbe – agli utenti – di comprendere e analizzare meglio i messaggi ed i contenuti mediatici.

Contribuirebbe, inoltre, a salvaguardare il pluralismo e l’indipendenza dei mezzi di comunicazione. Consentirebbe di esprimere opinioni diverse in rappresentanza di vari gruppi sociali. Favorirebbe lo sviluppo dei valori di tolleranza e di dialogo.

È importante imparare ad usare i dispositivi digitali (in particolare il computer) concentrandosi sui contenuti, sui bisogni delle persone e del territorio, sugli obiettivi di un progetto, di una comunità (scuola, turismo, sociale, attività produttive, arte, tempo libero, stranieri, giovani, anziani, associazioni ecc.).

Solo in questo modo l’informatica potrà diventare lo strumento per l’incontro e il confronto con il prossimo.

Bibliografia

La paura dei robot e dell’intelligenza artificiale: il cinema horror

La paura dei robot e dell’intelligenza artificiale è reale o solo immaginaria? E perchè il cinema se ne occupa?

Non sono l’unico forse che ricorda, con un sorriso un po’ nostalgico, le unghie incredibilmente lunghe di quel vampiro, figlio illegittimo del Dracula di Bram Stoker, noto ai più come Nosferatu.

Era il 1922 quando uscì nelle sale ed il cinema, che era da poco uscito dalle fiere e dai circhi, non aveva ancora finito di abbagliare il pubblico, proponendo la magia del movimento. Novità assoluta introdotta dai fratelli Lumière poco più di un ventennio prima. Vale la pena sottolineare che, un secolo fa, questo era un periodo piuttosto breve per la diffusione di una nuova tecnologia).

La prima fase del cinema horror: il mito Nosferatu

Ovviamente la scienza non aveva ancora portato alla luce fatti ormai divenuti di dominio comune, per cui la superstizione, il mito e la religione avevano ancora una spessa coltre di mistero a proteggerle, rendendole terreno più che fertile per storie in grado di far tremare le ginocchia. Anche a persone di una certa età.
Si racconta ad esempio che il celebre treno, ripreso frontalmente, proposto nel sopra citato primo film dei fratelli Lumière, fu sufficiente a svuotare la sala della proiezione, gettando tutti in preda al terrore!

Nosferatu
Nosferatu il vampiro è un film muto diretto da Friedrich Wilhelm Murnau e proiettato per la prima volta il 5 marzo 1922.

Che bei tempi devono esser stati per un regista! Quando quello che viene definito in gergo “patto narrativo” non doveva ancora combattere contro smartphone, wikipedia e quant’altro. 

Viene da chiedersi allora: cos’è successo? Quando è avvenuta la svolta che ha modificato così profondamente l’innato bisogno dell’essere umano di spaventarsi?

La lotta fra i grandi canali di comunicazione (cinema, radio e tv) ha ovviamente spinto la triade ad una progressione tecnica, che a sua volta ha anestetizzato gli spettatori. Rendendo loro necessario uno shock sempre maggiore per poter raggiungere quella condizione di “trance” che permette di percepire come reale ciò che viene proiettato sullo schermo. Ma è possibile distinguere tre fasi ben distinte, ben riflesse nel cinema horror. La prima è appunto quella del mito, rappresentata dal Nosferatu di Marnau.

La seconda fase del cinema horror: il terrore e Godzilla

Era il 1954 quando appare l’esponente del secondo momento dell’horror, Godzilla. Nasce in Giappone, 9 anni dopo la distruzione di Hiroshima e Nagasaki da parte degli americani, una ferita che non si rimarginerà mai più. Il trauma inflitto dalla tecnologia, incarnata dalla bomba nucleare, sarà così profondo da influenzare la poetica di un intero stato per settant’anni. E ancora oggi non sembra voler terminare.

Forse non tutti sapranno infatti che nelle prime versioni Godzilla è una mutazione genetica, frutto degli esperimenti nucleari che gli USA hanno (ed è storia vera) condotto per decenni nel Pacifico, non viene poi da stupirsi se le nuove versioni del film, di produzione stavolta Americana, abbiano tentato di deviare la trama dal tema centrale del film: il terrore suscitato dalla tecnologia atomica.

La terza fase del cinema horror: la paura del simile e gli zombie

Passano quattordici anni e, negli Stati Uniti, il regista G.A. Romero riesce a strappare il concetto di “zombie” dal caos di un esotismo confusionario.

Scavando nella storia dell’arte si può vedere come per “esotismo”, si intende quell’accozzaglia insensata di stili che di solito precede lo sfiorire di una corrente, in pratica un’esaurirsi dell’ispirazione. 

C’erano già stati altri film sul genere, ma erano sempre permeati di magia voodoo (pratica di magia nera Haitiana e Caraibica) e non avevano mai riscosso particolare interesse, rimanendo relegati nella categoria del “trash” (letteralmente “spazzatura”). 

Con Romero la paura reale e tangibile della società a lui contemporanea prende forma: i tuoi amici, la tua famiglia, i tuoi colleghi potrebbero essere INFETTI. Il solido gruppo di individui collaboranti chiamato società potrebbe morire, da un momento all’altro. Non solo lasciandoti solo, ma tornando a chiedere un tributo in carne umana.

Risulta palese come possa essere proprio questa la paura più grande di una società fondata sul gruppo di persone, il fatto che lo stesso gruppo possa rivelarsi ostile, violento, brutale.

Non stupisce neanche l’evoluzione che ha subito il “morto vivente”, né il fatto che il successo sia arrivato abbandonando ogni legame magico per uno scientifico. Lo “zombie” è finalmente lo specchio delle paure dell’occidente post bellico.

Zombie
La notte dei morti viventi è ritenuto un film di culto e ha lanciato nel cinema il tema dell’apocalisse zombi. Photo credit: Mediacritica.

Ovviamente col tempo le corrente si sono mescolate, divise e influenzate, generando miriadi di opere senza alcuna connessione geopolitica, se non un becero tentativo di imitazione.

La quarta fase del cinema horror: la paura dei robot e dell’Intelligenza Artificiale

Mi sembra personalmente evidente però l’apertura ad una nuova fase del cinema, horror e non, caratterizzata, come è stato per il Giappone degli anni ‘50, da una forte presenza tecnologica, una paura dei robot e dell’intelligenza artificiale.

Sono già a decine infatti le opera, anche solo cinematografiche, che riportano questo come tema principale, affrontato dalle prospettive più disparate:

  • “Her” relazione la macchina intelligente e l’essere umano, accompagnato dalla sua crescente solitudine;
  • “Matrix” ci proietta nella simulazione, vista come surrogato del mondo che l’uomo ha prosciugato;
  • “Tron”  offre la prospettiva inversa, mettendo il mondo virtuale sul piano di quello reale;
  • “Il tredicesimo piano” invita a rimettere tutto in discussione, a partire dal concetto di realtà;
  • “Ghost in the shell” ( e mi riferisco al capolavoro di animazione Giapponese del 1999) offre un mondo in cui gli esseri umani stanno scomparendo, sostituiti da versioni cyborg migliorate di sé stessi;
  • “Blade Runner” porta a chiedere, con grande freddezza, quale sia il confine oltre il quale l’intelligenza viene ritenuta vita.

Il cinema, come le altre arti, è in grado di riflettere ciò che una comunità spesso non è in grado di vedere in sé stessa. Così analizzandone le paure è possibile comprenderne le meccaniche basilari.

La domanda che sorge spontanea è: “Sarà quindi un caso che, insieme a questo ritorno del terrore tecnologico, dagli anni ‘80 ad oggi si sta facendo largo anche quel filone che vede come scenario una Terra desolata e sfinita dall’attività umana, noto come post-apocalittico?”