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Il valore dei dati: nuovi conquistadores e nuova ricchezza

Qual è il valore dei dati? Perchè i dati sono diventati il petrolio della nostra società digitalizzata? Siamo pronti a gestirli e soprattutto siamo in gradi di percepirne la mole?

I conquistadores a caccia di nuove ricchezze

Un tempo c’erano i sumeri, fenici, greci, ma soprattutto i romani. Antichi conquistatori alla spasmodica ricerca di espandere l’Impero.

cavalleria romana
La cavalleria romana travolge i Persiani nel bassorilievo che decora l’Arco di Galerio a Salonicco (Foto L. Marisaldi).

Poi è stato il tempo dei conquistadores spagnoli e portoghesi. Soldati, esploratori, avventurieri che portarono gran parte delle Americhe sotto il controllo dell’impero coloniale spagnolo tra il XV e il XVII secolo. Tutti sappiamo come andarono quelle spedizioni. La colonizzazione fu caratterizzata dalla violenza dei conquistatori che sterminarono i conquistati. Le popolazioni locali furono spazzate via, distrussero intere civiltà e si avviò lo sfruttamento economico dei nuovi territori.


Theodore de Bry in 1592 formed part of his America Series and showed Christopher Columbus landing on the Caribbean island of Hispaniola in 1492

Conquistadores digitali, a caccia di dati

A distanza di 500 anni assistiamo ad una nuova conquista, una nuova forma di colonialismo, con i padroni della Rete che sono i moderni conquistadores. E’ vero, non si conquistano territori reali (per definizione la Rete è virtuale), ma popoli e dati: i conquistati stavolta siamo noi, tutti.

Noi, con tutti i nostri dati, siamo i nuovi conquistati dai padroni della Rete?

“In pochi altri momenti della storia le persone sono diventate prodotti. Abbiamo avuto la tratta degli schiavi, la prostituzione, ed oggi il mercato dei dati”. E’ quanto scrive Christopher Wylie, ex direttore della ricerca di Cambridge Analytica. Che prosegue il suo ragionamento proprio con un parallelismo tra colonialismo e neo-colonialismo.

“Penso che il colonialismo sia un esempio storico efficace per spiegare cosa succede quando lungo il cammino dell’umanità scatta una corsa ad appropriarsi delle risorse e delle persone in una terra di frontiera […]. I colonizzatori venivano spesso considerati figure divine. Avevano la polvere da sparo, le corazze, le navi. Erano portatori di una tecnologia superiore, ma non erano altro che conquistatori. Il parallelo con quanto sta avvenendo nel mondo del digitale è evidente. Abbiamo cominciato a considerare come semidei coloro che hanno rivoluzionato questa industria. Ma in realtà sono solo persone che stanno entrando in questa nuova terra. Esattamente come fecero i conquistadores con la popolazione indigena. Solo che questa volta gli indigeni (e la risorsa da sfruttare) siamo noi”.

Il valore dei dati

Proprio dopo lo scandalo Facebook / Cambridge Analytica (l’uso scorretto di un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook, da parte di un’azienda di consulenza e per il marketing online, appunto Cambridge Analytica, che avrebbe favorito l’elezione di Donald Trump, condizionato il referendum sulla Brexit e tessuto relazioni “pericolose” con la Russia di Putin) qualcosa si è mosso a livello di opinione pubblica. Nel frattempo è entrato in vigore il nuovo regolamento europeo sulla privacy (noto come GDPR).

Resta il fatto che nessuno sa dire con certezza quanti e quali dei nostri dati personali sono in possesso dei grandi player mondiali di Internet (Facebook, Amazon, Google, per citarne solo alcuni). Dati digitalizzati che non vengono più considerati “data as oil” (dati come petrolio) da raffinare per “estrarre” informazioni, (ed essere rivendute). Ma “data as currency” (dati come moneta), essi stessa moneta.

La prossima rivoluzione capitalistica vedrà il dato come “capitale”, in sostituzione del denaro. Secondo Viktor Mayer-Schonberger, professore all’Università di Oxford e tra i massimi studiosi di big data, siamo alla vigilia di una nuova rivoluzione industriale. Tanto epocale quanto la prima, che reinventerà il capitalismo.

Scrive Mayer-Schonberger: “Oggi un numero limitato di aziende gestisce i dati, quindi guida i mercati, rendendo il capitalismo più simile ad un’economia pianificata che ad una economia di mercato. Grandi aziende ci consigliano non solo dove e come, ma anche cosa comprare […]. Una soluzione (per contrastare questi monopoli ndr) potrebbe essere quello che io chiamo progressive data sharing […]. Una condivisione progressiva dei dati cui si potrà arrivare solo previa regolamentazione, da parte dei governi, delle modalità in cui i dati sono raccolti, controllati e resi accessibili in maniera equa e condivisa da parte di tutti gli attori economici interessati”.

Data as currency

Interessanti esperimenti in proposito si iniziano ad intravedere all’orizzonte (molti basati su tecnologia Blockchain). Uno molto interessante prevede ad esempio la possibilità per gli editori online di concedere la possibilità agli utenti mobile di scegliere se pagare l’accesso a contenuti con i propri dati anziché con la moneta tradizionale. Il cerchio si chiude: data as currency diventa realtà.

Soluzioni che riconoscano pari valore al dato rispetto alla moneta sono forse il futuro del marketplace digitale. Una opzione che permette di scegliere se pagare un prezzo equo in cambio di un’esperienza che non richiede la condivisione dei dati dà valore al dato e ripristina e rafforza la fiducia degli utenti nel player che la propone.

Ci informiamo… e vi teniamo aggiornati! 😉

Dimmi che emoji usi e ti dirò cosa desideri

Questo è un frame di una campagna pubblicitaria del 2018 di una famosa azienda automobilistica giapponese pubblicato su Twitter, il video mostra scene di guida quotidiane di un pilota con una gigantesca emoji al posto della testa.

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E tu. che emoji usi? (technicavita.org)

A sostituire le espressioni di un attore una ben più efficace facciona gialla per poter far immedesimare più persone possibile. Non proprio.

Di questo stesso spot sono state pubblicate 83 versioni differenti.

Ogni versione ha un attore con un’emoji diversa e un contesto emotivo differente. Poiché ogni versione è indirizzata ad utenti vari e specifici. Selezionati secondo criteri differenti dalle solite campagne di marketing.

Non più elementi come età, sesso, area di residenza, gusti ed interessi. Ma sono state le emoji stesse a determinare la distribuzione di questi spot per i differenti “target”. A Toyota infatti è bastato collezionare giusto alcuni dati sull’utilizzo delle faccine digitali nel social di Twitter per capire a quali utenti indirizzare ciascuno spot.

Tutto inizia nel 2016, quando il social dei cinguettii introduce la possibilità di accedere ai dati sull’uso delle emoji dei propri utenti. Proprio in procinto del primo World Emoji Day. Già allora dal 2014 erano state twittate 110 miliardi faccine e il famoso e rinomato Oxford Dictionary ne aveva scelta una in particolare come “parola” del 2015. Ciò le elevava ufficialmente a moderno geroglifico, in grado di contenere al loro interno un significato ben definito che non necessita di spiegazioni.

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Oxford Dictionary, Word of the Year, 2015 (pixabay.com by Conmongt)

Emoji che usi = bisogni che hai

Emozioni, oggetti, animali, sport, azioni, abbigliamento, architettura, arte, meteo e cibo, soprattutto cibo, pensando a tutto ciò che si può dire con un’emoji non è difficile concepire quale potere guadagna chi è in grado di sapere quali emoji usiamo.

Una nota azienda che produce pizza non avrà più bisogno di geni del marketing. Le basterà sapere chi ha usato l’emoji della pizza ultimamente per sponsorizzazioni mirate.

Questo ha sicuramente rivoluzionato le pubblicità ed ha affilato l’arma delle sponsorizzazioni targetizzate (pubblicità mirate ad uno specifico pubblico di consumatori, che secondo determinati criteri di selezione, sono più propensi a comprare e/o interagire con un bene di consumo).

Dando alle aziende un vantaggio incredibile rispetto al passato, che non limita a profilare i propri possibili consumatori secondo le loro personalità. Ma estende la classificazione ad emozioni momentanee ed immediate. Questo succedeva ormai due anni fa ed è molto probabile che già altri social facciano lo stesso. Tenendo sotto controllo le corde dei nostri cuori per aiutarci ad avere una better user experience (una migliore “esperienza per l’utente”). E così che quando navighiamo nei siti troviamo proprio ciò che stavamo desiderando quel giorno, o pochi istanti prima!

Questo articolo non vuole evocare atmosfere Orwelliane (poiché l’autore ci tiene a specificare che i servizi gratuiti online non sono mai veramente omaggi ma vengono pagati dagli utenti tramite i loro dati). Semplicemente vuole chiedere ai propri lettori di riflettere sull’utilizzo che essi fanno della rete e fare una domanda. Pensate che sia invadente e inopportuno catalogare tra i vostri dati anche le vostre emozioni?

Leggi anche: “Lo scenario del digital marketing

La stampa 3D in cucina: il food printing

La stampa 3D in cucina? Sembra proprio di si. E presto potremmo trovarci nella condizione di sentirci dire da nostro figlio: “Mamma, stasera per cena mi stampi la pizza?”.

Solitamente in Italia, quando si parla di innovazione nel mondo alimentare, tutti si mettono sulla difensiva e gridano “Eresia!”. A quanto pare non più. Già da qualche anno infatti il settore del “food printing” sta vivendo un periodo di grazia, vedendo il fiorire di un mercato totalmente nuovo che abbraccia ormai gli alimenti più disparati. Passando dalla cioccolata alla pizza 3D appunto.

Per quest’ultimo alimento poi si guarda già all’alta qualità, con collaborazioni come quella fra BeeHex e lo chef internazionale Pasquale Cozzolino, che ha contribuito al progetto di una macchina in grado di stampare pizze 3D. Mantenendo caratteristiche importanti come l’utilizzo del lievito madre.

Stampa 3D in cucina: il cibo diventa tecnologico

Il motivo è piuttosto semplice, come per la normale produzione industriale, con la stampa 3D si ha modo di abbattere fortemente i costi di produzione. Mantenendo uno standard qualitativo estremamente omogeneo sui prodotti.

Per quanto riguarda poi i prodotti, e non solo gli alimenti, composti da miscugli, quindi da miscele di polveri e solventi, come potrebbe essere il cemento, il processo risulta particolarmente favorevole. Riducendo al minimo la perdita di qualità rispetto alle tecniche realizzative tradizionali ed ottimizzando tempi e costi di produzioni.

La dimostrazione è la nascita delle prime società in grado di stampare case in 3D. Ovviamente la stampa riguarda solo lo scheletro e le parti in muratura. Tutti gli altri lavori vengono eseguiti con tecniche tradizionali. Ma a guardar bene non manca molto prima che si possa dire di avere una casa interamente stampata in 3D, arredi compresi.

pizza 3D
unsplash.com

La prima abitazione di questo tipo costruita in Europa si trova a Milano, in piazza Beccaria, ad opera di Massimiliano Locatelli di Cls Architetti. Realizzato nel 2018, si tratta di un edificio di 100 mq distribuiti su un solo piano. Sono attualmente in corso gli studi per la realizzazione del secondo piano. Segno evidente che non sono ancora pienamente note le possibilità tecniche di questo sistema costruttivo. Ma l’entusiasmo generale è motivato dai promettenti risultati finora raggiunti.

Ad oggi le stampanti 3D iniziano a farsi largo nel mercato di massa, raggiungendo così prezzi abbordabili e prestazioni elevate. Ma purtroppo la gamma si limita ai modelli in grado di stampare polimeri plastici o vegetali. Materiali utilizzati principalmente per gadgettistica ed elementi d’arredo, in quanto ovviamente ogni modello è predisposto per stampare solo una limitata qualità di materiali.

Manca ancora del tempo quindi prima di frasi tipo “Te le ricordi le lasagne di nonna?! Come le stampava lei…”

Video – prima casa stampata in 3d

Animazione digitale, quanto è cambiata dagli inizi?

Tutti conoscete l’animazione digitale, ma vi siete mai chiesti come si realizza un cartone animato? Le tecniche di animazione digitale hanno subito qualche variazione nel tempo. Più che altro si tratta di facilitazioni, in effetti. Ma i metodi rimangono all’incirca identici. In particolare se parliamo di animazione 2D.

L’animazione tradizionale

Il sistema più conosciuto è quello a cui ci ha abituati la Disney con i suoi grandi classici, come “la Sirenetta” o “Il Re Leone”, tanto che viene chiamata “animazione tradizionale”.

In sostanza si tratta di disegnare ogni singolo fotogramma dell’animazione. Che verrà poi riprodotto come se fosse un normale fotogramma in pellicola, con qualche possibilità di variazione sugli fps [Nda: fotogrammi per secondo]. Di solito sono 24, anche se un valore più alto fornisce una maggiore fluidità di movimento. E di solito viene percepito come una maggiore qualità nella realizzazione.

Alcuni videogames, per esempio, raggiungono picchi di anche 200 fps per mantenere la fluidità necessaria ad alcuni movimenti particolarmente veloci. I giocatori più incalliti sapranno bene quanto è importante avere una buona visione della scena in questi momenti!

animazione digitale
Animazione digitale, quanto è cambiata dagli inizi? (pixabay.com by DG-RA)

Il supporto del digitale all’animazione

Questa tecnica ovviamente comporta la necessità di ridisegnare moltissime volte gli stessi soggetti. E proprio come quando il Sig. Disney fondò il suo impero, ancora oggi questa necessità è viva e vegeta. Perché il software non è in grado di creare elementi dal nulla. Può solo aiutare a modificare o muovere cose che il disegnatore ha inserito a mano, alla vecchia maniera. Avendo anzi la difficoltà aggiuntiva di dover lavorare su un supporto che spesso non è confortevole come la carta.

Sicuramente poter cancellare senza rovinare il foglio è un grande aiuto. Così come l’automazione di moltissimi processi, la possibilità di suddividere i piani di profondità, come il soggetto o lo sfondo, senza doverli disegnare tutti ogni volta (un tempo si sarebbero utilizzati dei fogli trasparenti. Oggi si chiamano livelli, ma sono la stessa cosa. Ma da qui a dire che “tanto il lavoro lo fa il pc”, ovviamente ce ne passa.

Una cassetta degli attrezzi, ma molto più fornita

Questo per dire, purtroppo, che verso la creazione di contenuti digitali, si tratti di musica, di video o di immagini, c’è ancora molto mistero. Quindi, cose che potrebbero sembrare facili, in realtà si dimostrano ben più complesse. Si pensi ad esempio ai titoli di coda di un film di animazione. La lista dei nomi è lunghissima per una ragione specifica. Ognuna di quelle persone ha curato un aspetto specifico del progetto, così da ottenere il risultato migliore in ogni singola componente.

I software sono come della cassette degli attrezzi, spesso permettono di svolgere più agilmente un compito. Ma difficilmente possono rimuoverlo del tutto. La difficoltà è inoltre costantemente aumentata dalla richiesta del pubblico che, abituandosi in fretta, chiede di continuo prodotti migliori e più spettacolari.

Lucas vs Lucas

Un buon esempio per il confronto è la saga di Star Wars, considerando i primi sei film. Non per gusto ma perché i film a produzione Disney ed i primi tre capitoli della saga, cioè gli ultimi prodotti prima dell’acquisizione della società, sfruttano tecnologie molto simili, semplicemente aggiornate.

Mentre i film recenti sfruttano totalmente tecnologie digitali come ricostruzioni 3d ed effetti di post-produzione video, i vecchi film come quelli del ‘77 sfruttavano sistemi analogici. Per quanto la logica sia identica.

Nonostante stavolta non si tratti di animazione 2D ma 3D, il caso risulta ugualmente calzante.

Per le esplosioni delle navette, ad esempio, Lucas costruì dei modellini che posizionò davanti ad uno sfondo dipinto dello spazio. Iniziò poi a romperli seguendo i criteri di un’esplosione, simulando le fiamme con dell’ovatta colorata, scattando 24 foto al secondo. Così da poterle inserire come fotogrammi, secondo una tecnica chiamata “passo uno”.

Per i film più recenti invece, sono stati ricostruiti tutti i modelli, stavolta in un software 3d. Sono state inserite le luci, le texture per simulare i materiali, effetti particellari per simulare fumi, grane, combustioni e altri disturbi. Così da ottenere un’immagine meno pulita, più realistica. Poi è stata inserita una camera 3d per filmare la scena e tutti i modelli, camera inclusa, sono stati animati. Ovvero gli sono stati impartiti i comandi, dopo aver inserito un’ossatura (ad esempio per i “walkers”) a cui associarli.

Ovviamente, poi c’è la post produzione [Nda: fase terminale dei lavori di ripresa o animazione, durante la quale si aggiungono effetti, filtri, correzioni cromatiche e similari]. Nei film degli anni ‘80 si coloravano i laser sulle pellicole, fotogramma per fotogramma. Adesso si disegnano i laser in digitale, spesso fotogramma per fotogramma.

animazione digitale
Star Wars – Animazione digitale, quanto è cambiata dagli inizi? (pixabay.com by Patrice_Audet)

Analogie e differenze

Analogie e differenze risultano evidenti, anche a chi non è allenato. I processi di creazione della medesima tipologia di prodotti si vanno raffinando nel tempo. Affilando gli strumenti grazie alla traduzione in digitale di moltissimi processi, mantenendosi invece pressoché inalterati nella struttura. La fotografia, allo stesso modo, si è resa più accessibile, meno severa nella realizzazione. Adesso le possibilità di fotoritocco sono estreme, così come le possibilità di scatto, grazie a nuovi sensori, nuove batterie, nuove ottiche. D’altra parte la pressione del mercato sull’abbattimento dei costi rimarrà sempre la voce dominante, per cui i Simpson li animano in Korea.

Leggi anche: “Oled display gli schermi che fanno impazzire il mercato

Lo scenario del digital marketing, cosa ci aspetta?

Il digitale è in continua evoluzione, il digital marketing pure. Basti pensare come ha rapidamente trasformato la società e le abitudini di consumo. Da una televisione ed un telefono per appartamento – nel 1970 – ad una moltitudine di apparecchi multimediali e iper-intelligenti (ovvero “Smart”): PC, smartphone, laptop, Smart Tv, consolle per gaming, apparecchi per la realtà virtuale e chi più ne ha più ne metta.

Uffici, sale operatorie, concerti, informazione e mezzi comunicativi; tutto è cambiato radicalmente da vent’anni a questa parte. Non abbiamo più risme e risme di carta e documenti contabili cartacei, basta un PC portatile; ai concerti non utilizziamo più gli accendini per creare coreografie sceniche su invito della star, piuttosto facciamo video con lo smartphone; il giornale praticamente non lo legge più nessuno, perché si può trovare tutta la stampa del mondo con uno smartphone.

Questi, come mille altri esempi sono ciò che potrebbe essere definito come “il panorama digitale” odierno. E l’offerta di prodotti e servizi, non segue più quelle logiche proprie del secolo scorso, – dove la più generale pubblicità veniva offerta al pubblico più indifferenziato – mutando invece in una dimensione sempre più individuale, sempre più iper-personalizzata. Il mercato offre specifici prodotti a specifiche categorie di consumatori, o addirittura a specifiche persone!

I numeri del digital marketing

Nel mondo vivono circa 7,5 miliardi di persone. Quattro di queste hanno accesso a internet. Tre di queste sono utenti di almeno un social network. Cinque miliardi di persone posseggono uno smartphone e 2,7 miliardi di essi lo utilizzano per accedere a Internet o ai socials.

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Photo credit: typographyimages, by pixabay

Con un focus su Internet, circa il 51% della popolazione mondiale ne ha usufruito almeno una volta e, tramite smartphone (i cui possessori sono quasi quattro miliardi), circa il 92% ne usufruisce quotidianamente. Parlando di social, circa il 40% della popolazione mondiale ha un account su almeno un social e 37% di questi vi accede principalmente tramite smartphone.

Il digitale in Italia

Volendo definire la situazione italiana, sappiamo che su circa sessanta milioni di italiani (popolazione totale censita), il 60% di questi (quasi quaranta milioni) ha accesso a internet, e il 52% utilizza piattaforme social. Inoltre, più dell’85% degli italiani possiede uno smartphone e il 50% di essi è attivo sui social.

Potremmo stare qui per giorni a mostrare statistiche e cifre del mercato dei social in Italia e nel mondo, ma tutta questa carrellata di numeri, serve a fare un semplicissimo ragionamento: se tutte queste persone sono così “addicted”, dipendenti e, in qualche modo, persuase dalle nuove tecnologie digitali, il mercato che si prospetta per le nuove strategie di marketing è spaventosamente ampio.

Che si parli di social media marketing (che da solo meriterebbe un discorso a parte) o che si parli del marketing digitale più “tradizionale” (e-mail marketing, banners, advertising, commercials ecc.) è lampante quanto – in termini prettamente monetari – l’orizzonte sia potenzialmente infinito.

Previsioni nel settore del digital marketing: +80% in 5 anni

Recenti stime (inizi 2018) affermano che il flusso di denaro per quelle branche di aziende che si occupano di comunicazione commerciale e marketing digitale aumenterà di circa l’80% in 5 anni. Stiamo parlando di fiumi di miliardi (!).

Concludiamo questo excursus con alcuni simpatici aneddoti sulle principali società digitali del nostro tempo.

  • UBER: la più grande compagnia di “taxi” al mondo, non possiede neanche un taxi.
  • ARIBNB: il maggiore fornitore di alloggi, non possiede immobili a lui intestati.
  • SKYPE / WE CHAT: le più grandi phone companies non possiedono infrastrutture telefoniche.
  • ALIBABA: il rivenditore più quotato al mondo non ha nessun archivio merci.
  • FACEBOOK: il social media più popolare che ci sia, non ha alcun contenuto creato da sé.
  • NETFLIX: la più grande movie house non possiede sale cinematografiche.
  • GOOGLE / APPLE: i maggiori rivenditori di software non “scrivono” app.

Supercomputer: nascita e sviluppo di uno strumento rivoluzionario

Si sente sempre più parlare di supercomputer, costose quanto sofisticate macchine, che hanno reso possibili molte ricerche e scoperte scientifiche nei campi più disparati. Le intelligenze artificiali (AI), le galassie virtuali, le analisi molecolari, le previsioni meteorologiche, simulazioni fisiche, e molto altro ancora.

Che cos’è un supercomputer?

Ma perché questi super calcolatori rendono tutto questo possibile?
Per “supercomputer” si intende un’unità di calcolo progettata per operare ad altissime prestazioni. Processando enormi quantità di dati e variabili parallelamente.

Basti pensare a varie operazioni matematiche che, piuttosto che essere eseguite sequenzialmente, cioè una per volta, vengono eseguite nello stesso istante.

Si capisce bene che per applicare un tale processo a quantità di dati molto estese, servono dispositivi in grado di svolgere queste attività quasi istantaneamente.

Ad oggi, i computer diffusi per uso comune sono dotati di processori con prestazioni non molto distanti da quelli utilizzati da queste potenti macchine. Sebbene queste ne posseggano decine o centinaia di migliaia, collegati tra loro per formare un unico e super performante computer.

supercomputer
supercomputer

La nascita dei supercomputer

I supercomputer non sono un fenomeno recente. Difatti la loro storia inizia già nella prima metà del secolo scorso. Ed affonda le proprie radici addirittura nel XIX secolo, condividendo i principi della macchina analitica ideata da Babbage. Considerato il primo scienziato proto-informatico, per primo concepì l’idea di un calcolatore programmabile.

Molti esperti informatici fanno risalire i supercomputer agli anni ‘50, individuando nel NORC, prodotto da IBM, il primo super calcolatore. Sebbene possedesse un decimo della capacità di calcolo di un odierno smartphone, e fosse dotato di un singolo processore, sarebbe stato il precursore delle tecnologie odierne.

Il vero boom nello sviluppo dei supercomputer avvenne tra gli anni ‘60 e ‘70, anche grazie al più famoso pioniere del campo, Seymour Cray, che negli anni seguenti avrebbe rappresentato il leader indiscusso nel settore del supercalcolo.

Introdusse lui i sistemi di raffreddamento a liquido, e l’idea di riunire le componenti nelle famose torri. Che riducono drasticamente i tempi di comunicazione tra i dispositivi interconnessi.

Tra la fine degli anni ‘80 e inizio anni ‘90 si sviluppò il parallelismo massivo. Cioè la connessione di centinaia, se non migliaia, di macchine parallele. Dovuto alla diminuzione dei costi di produzione a causa delle prime produzioni in scala dei componenti informatici. Da allora lo sviluppo e la produzione dei supercomputer sono cresciuti esponenzialmente. Complice sia il crescente numero di utenti che utilizzano il PC, sia per la diffusione dei giochi tridimensionali, che si servono di processori e schede grafiche molto simili.

Attualmente gli Stati uniti detengono il primato per il supercomputer più potente, con il Summit di IBM. Riportando sul suolo americano il primato precedentemente battuto dalla Cina, che si posiziona così al secondo posto con il Sunway TaihuLight.

La curiosità

Per quanto riguarda l’Europa, il computer più performante si trova in Spagna: all’interno di una chiesa cattolica sconsacrata. La cappella Torre Girona ospita dal 2005 il supercomputer MareNostrum, gestito dal Barcelona Supercomputing Centre, in quello che è ritenuto essere il centro dati più bello del mondo.

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MareNostrum supercomputer al Barcelona Supercomputing Center

6 modi per proteggere i dati quando si lavora da remoto

Sempre più persone, per via della pandemia, hanno cominciato a lavorare da casa. Lo smart working per molti è diventata la nuova quotidianità, in attesa che le norme sanitarie divenissero meno stringenti.

In questo processo è stato necessario ripensare al modo di tutelare la sicurezza dei dati aziendali. Le compagnie hanno quindi introdotto nuove best practice per evitare attacchi informatici. Tra queste migliori antivirus, connessione internet più protetta, firewall, autenticazione a due fattori e molto altro.

Nei prossimi paragrafi scoprirai 6 modi per proteggere i dati quando si lavora da remoto. Queste precauzioni sono molto importanti in quanto gli attacchi informatici, non solo espongono a malintenzionati dei dati sensibili, ma generano dei costi non da sottovalutare per le aziende. Se i dati sono la ricchezza del terzo millennio, occorre mettere in atto tutte le strategie per proteggerli.

Quindi, meglio investire del denaro per proteggersi piuttosto che perderlo per via di pericolosi attacchi hacker. Di seguito presentiamo i 6 modi più frequenti con cui proteggere i dati quando si lavora da remoto.

1. Formazione del personale

Spesso i lavoratori commettono degli errori che potrebbero costare caro all’azienda. Molti di questi possono essere evitati semplicemente attraverso la giusta formazione. E’ l’azienda stessa che dovrebbe erogare corsi circa la gestione delle informazioni riservate fuori dall’ufficio.

Per evitare controversie, è bene che i dipendenti vengano messi al corrente dei protocolli utilizzati per proteggere i dati. A volte basta una distrazione, come connettersi a un wifi pubblico non sicuro o il clic su un link dannoso, per mettere a rischio la sicurezza dell’azienda. La formazione riduce il rischio di errore umano nella sicurezza informatica.

2. Connessioni sicure

Le connessioni Wi-Fi pubbliche non protette mettono i dati aziendali a rischio. Infatti, gli hacker potrebbero entrare nei sistemi proprio attraverso la rete internet.

Per evitare questa evenienza, è bene adottare alcune misure di sicurezza: usare innanzitutto una VPN, tenere spento il WiFi quando non lo si usa, visitare solo le versioni HTTPS dei siti web quando possibile.

I dipendenti dovrebbero comprendere la reale importanza della VPN: essa offre un accesso privato a Internet con connessione crittografata. Ciò significa che gli hacker non possono avere accesso alle informazioni private. Le attività svolte mediante l’uso di una VPN restano anonime e protette.

3. Antivirus

Sui dispositivi utilizzati per lavorare da casa è necessario installare un Antivirus sicuro e che protegga dai malware. Il supporto tecnico aziendale dovrebbe adoperarsi per garantire la corretta configurazione di questi software, in modo che difendano i dati e non ostacolino il lavoro dei dipendenti. Essi sono molti e ognuno incontra delle esigenze diverse, scopri di più sul software antivirus gratuito qui (ad link).

4. Backup

Sono tantissime le aziende che hanno compreso la sicurezza delle soluzioni di backup di terze parti. Tante, ma non tutte. Infatti, i sistemi IT delle aziende si basano spesso su infrastrutture virtuali e fisiche molto complesse per gestire i propri dati, rendendoli però più vulnerabili.

Il backup di terze parti si basa interamente su cloud e esegue il salvataggio dei dati da tutti i tipi di storage. Questo rende l’infrastruttura meno complessa e ampia, riducendo drasticamente la possibilità di attacchi informatici.

5. Gestore di password

Le password sono il modo più semplice ed efficace per proteggere qualsiasi cosa. I dipendenti delle aziende devono utilizzare password forti e diverse per prevenire le violazioni il più possibile.

Un gestore di password è una soluzione davvero comoda per generare chiavi di accesso automaticamente e mantenendole anche lontane da occhi indiscreti. La loro funzione è quella di inserire le password automaticamente nei sistemi, generandone per ogni programma una diversa e complessa. Questo aumenta la protezione dei dati e allontana con facilità i malintenzionati.

6. Autenticazione a due fattori

Il furto di credenziali è tra le violazioni più comuni quando si parla di dati aziendali. Oltre che all’uso di un gestore di password, l’ideale è affidarsi all’autenticazione a due fattori.

Essa richiede all’utente di dimostrare la sua identità prima di effettuare l’accesso. Oltre che a nome utente e password, a volte viene richiesto di digitare un codice inviato al dispositivo mobile o di scannerizzare un QR con lo smartphone.

Oled display gli schermi che fanno impazzire il mercato

Cosa sono i nuovi Oled display pieghevoli, trasparenti e addirittura altoparlanti? Samsung ha recentemente dichiarato, per l’ennesima volta in realtà, l’interesse a commercializzare, inizialmente nel settore automobilistico, i primi schermi pieghevoli, figli dei già commercializzati schermi curvi. Insieme a questi schermi semitrasparenti (44% di visibilità), impermeabili e addirittura uno schermo altoparlante.

Cos’è un Oled Display?

La tecnologia usata è quella degli Oled (Organic Light Emitting Diode ovvero diodo organico a emissione di luce), una tecnologia che permette di realizzare display a colori in grado di emettere luce propria, a differenza ad esempio degli schermi LCD.

Gli aspetti positivi, com’è evidente, sono moltissimi. Dalla qualità dell’immagine e dei colori fino alle infinite possibilità date dalla flessibilità e dalla leggerezza di questi schermi. Gli aspetti negativi, come succede sempre con le tecnologie entranti, sono altrettanti: costo elevato, breve vita, alti consumi.

Casa Samsung infatti parla ancora di campo automobilistico per la necessità del settore di integrare informazioni durante la guida. Senza compromettere l’attenzione del conducente. Ma anche perché l’allestimento di uno di questi monitor all’interno di un abitacolo risulta tecnicamente meno impegnativa.

Oled display integrato nel volante
Oled display integrato nel volante, by Samsung

Cosa propone il mercato degli schermi Oled?

La risposta di LG, uno dei principali competitor di Samsung nello sviluppo di nuovi monitor, è stata quella rendere pubblico un prototipo (ancora non in vendita). Si tratta di un monitor in grado di scomparire all’interno di una propria “scatola protettiva”. Grazie alla sua estrema flessibilità. Sicuramente una novità, ma ancora anni luce da quelle meraviglie elettroniche che ci propone il cinema Hollywoodiano.

Quindi, per quanto sia facile immaginarsi un cellulare trasparente o un televisore pieghevole, questo tipo di tecnologia avrà bisogno di ulteriore sviluppo quindi prima di poter finire nei nostri smartphone.

Per quanto la conclusioni sembri inesorabile. Se si cerca Oled in rete infatti il mercato attuale si limita ad offrire una vasta gamma di “banali” televisori ultrapiatti ad altissima risoluzione.

Ovviamente tutti a prezzi decisamente importanti. Segno che comunque le capacità di resa visiva e la possibilità di avere un monitor “al vivo” (senza cornice di contenimento) sono già caratteristiche allettanti per chi può permettersi una spesa che, inevitabilmente, entro un paio d’anni dovrà rifare.

Oled, una tecnologia quindi che ha già moltissime applicazioni. Tanto che anche nel campo artistico sta diventando di uso comune (ad esempio “bourrasque” di Paul Cocksage sfrutta questa tecnologia). Malgrado alcune lacune che probabilmente verranno colmate con lo sviluppo.

Non resta che avere pazienza e godersi la sorpresa, che sempre mamma Samsung anticipa nel video concept, piuttosto criticato, della sua idea di smartphone Oled. Voi che ne pensate?

Formazione e cittadinanza digitale

Qual è il rapporto tra formazione e cittadinanza digitale, quanto è importante formare giovani e meno giovani all’uso delle nuove tecnologie? E cosa comporta tutto questo?

Nel 2010 un’insegnante americana chiese ad un suo studente se sapesse cosa fosse un’enciclopedia, lo studente rispose: “Qualcosa di simile a Wikipedia?”.

Ecco questo succedeva nel 2010, 8 anni fa, Wikipedia aveva più o meno 9 anni. Per chi oggi ha 10 anni (la cosiddetta generazione Z, i nati dopo il 2000) il mondo dei media analogici, a parte qualche libro di carta e poco altro, è qualcosa che si può vedere solo nei film.

Tutto quello che fino a 15 anni fa stava sulla scrivania trova oggi posto in un pc (molto spesso anche solo un tablet o uno smartphone). Questo significa che il vero valore di tutti gli oggetti di un tempo non era altro che il “dato”. Che una volta digitalizzato trova posto in un unico device.

Del digitale si è detto e scritto tutto ed il contrario di tutto, pensiamo alla musica. Il digitale ad un certo punto avrebbe dovuto distruggere un mercato (quello discografico) che invece dal 2012 ha fatto segnare importanti segnali di ripresa e che oggi sembra aver trovato, nel digitale, forme e prodotti nuovi di fruizione e svago. In molti settori si è assistito ad una ibridazione tra strumenti “tradizionali” e digitali. Se pensiamo che in Italia su 60 milioni di abitanti 43 milioni sono connessi ad internet e 34 milioni accedono regolarmente ai social network, capiamo come la portata del fenomeno sia immensa.

Social = Relazioni

In questo contesto del tutto nuovo chi si occupa di formazione deve essere consapevole dei cambiamenti in atto o già avvenuti. Anche chi pensa di essere “al passo coi tempi” potrebbe non esserlo, data la velocità con cui si evolve la tecnologia. Ad esempio si potrebbe pensare che il principale social network giovanile sia Facebook, non è così. Da anni i più giovani fuggono dal social di Zuckerberg, perché lo abbiamo colonizzato noi! La fascia d’eta maggiormente rappresentata su Facebook è 34/45 anni! Nuovi social si affacciano prepotentemente all’orizzonte: Snapchat, Musical.ly (oggi TikTok),Twich. Le giovani generazioni ci passano ore, non a rimbambirsi (come spesso sentiamo dire) ma a tessere relazioni.

Formazione e cittadinanza digitale: il Piano Nazionale Scuola Digitale

In Italia qualche anno fa è stato lanciato il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD). Un documento di indirizzo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale.

Il digitale per la prima volta non viene visto in modo meramente strumentale ma come possibilità di svolta culturale. L’Italia è al 25° posto in Europa per numero di utenti connessi alla rete. E al 23° per competenze digitali di base, ultima per tutta una serie di parametri connessi al digitale. Si impone dunque una formazione prima di tutto ai docenti!

Operazione più che mai complicata, in considerazione del fatto che l’età media dei docenti italiani è la più alta d’Europa.  In questo il Piano invitava i docenti ad inserire nel set degli strumenti tecnici con cui insegnare anche le tecnologie digitali e gli ambienti digitali

Società iperconnessa e competenze per il XXI secolo

Il cittadino digitale ha tutti i servizi, i diritti ed i doveri del cittadino del XX secolo. Ma in un contesto che è fortemente mutato ed in cui è necessario avere nuove conoscenze/competenze. Vogliamo parlare del cyberbullismo? Insegnare a verificare l’attendibilità delle fonti e scoprire le fake news? Ragionare sulle autorizzazioni all’utilizzo di immagini, video, testi? Protezione dei dati e privacy sono sempre più argomenti all’ordine del giorno, dal momento che tutti i nostri dati (o quasi) sono online. E’ un dovere per la scuola lavorare per la formazione di un cittadino digitale consapevole. Educare alla partecipazione responsabile (cosa stai condividendo, perché lo fai, dove hai preso quella informazione?) i futuri cittadini della società della conoscenza.

Formazione e cittadinanza digitale
Formazione e cittadinanza digitale, temi più che mai attuali in un mondo sempre più iperconnesso. Photo Credit: Geralt, by Pixabay.

Ma quali sono le competenze di base dei cittadini digitali?

E’ stato pubblicato dalla Commissione Europea un framework con il quadro delle competenze europee di base del cittadino. E successivamente un “quadro europeo per la competenza digitale degli educatori: DigCompEdu”, i documenti sono linkati e molto interessanti da leggere.

Una considerazione finale che parte dalla constatazione delle nuove competenze (che poi sono le vecchie “rivisitate” in ottica digitale). Se tutto diventa software (softwarizzazione) la realizzazione di questi algoritmi non può essere argomento solo per “tecnici” ma deve interessare tutti.

Un algoritmo non è più una questione matematica e basta, ma diventa la modalità con cui andiamo a regolare anche questioni socio-culturali.

Per questo nella “costruzione” dei nuovi software (algoritmi) devono essere compresi anche umanisti, filosofi, sociologi, ecc. Il fulcro deve sempre essere l’uomo. Ma un essere umano che sta vivendo in un mondo che ha prodotto e che oggi è fatto di agenti digitali: sensori, software, robot, che lavorano insieme a noi. La formazione si deve occupare di questi temi?

Si, la formazione deve affrontare questi cambiamenti in modo laico poiché il “futuro algoritmico” non è il futuro, ma è già il nostro presente.


In questo articolo riproponiamo la relazione del Prof. Mario Pireddu, che ha affrontato il tema del ruolo della formazione per la cittadinanza digitale, nel corso del Digital Day 2018 organizzato da Moondo.

Mobile gaming: è veramente il futuro dei videogiochi?

Sentiamo sempre più spesso parlare di mobile gaming, soprattutto dopo il Blizzcon di quest’anno, dove è stato annunciato il lancio di Diablo Immortal, nuovo capitolo della saga hack and slash di “mamma” Blizzard.

Il gioco è stato solamente annunciato senza ancora una data di uscita certa e ha da subito scatenato enormi discussioni online, riaprendo il dibattito sul mercato del mobile gaming.

Il mercato del mobile gaming

Negli ultimi anni si sono visti moltissimi titoli celebri uscire nella versione per mobile, sfruttando l’uscita di dispositivi sempre più potenti. Addirittura iniziano a spuntare i primi dispositivi pensati per i videogiocatori come l’Asus ROG phone e il Razer Phone, con i loro accessori specifici pensati per i giocatori. Come dissipatori di calore o “impugnature” con tasti dorsali e levette analogiche.

Bisogna anche dire che oltre Nintendo, che ha rilasciato la “Switch”, unica vera console portatile della sua generazione (di cui si vocifera uscirà un nuovo modello a breve), le altre case non sono state molto attive su questo fronte. Lasciando di fatto che lo smartphone divenisse la nuova console “on the go”.

Candy Crush

Credo ci siano una serie di fattori da tenere in considerazione, pensando al mercato dei videogiochi mobile, primo fra tutti la diffusione estrema che hanno raggiunto gli smartphone, elemento sottolineato anche da Blizzard durante la presentazione di Diablo.

Questo apre il mondo del videogioco ad un pubblico totalmente nuovo e più vasto. Che magari non è nemmeno in grado di gestire installazione e aggiornamento di un gioco su Pc. Ma che si trova perfettamente a suo agio nel contesto mobile, in cui è il sistema a sbrogliare gran parte dei processi.

Credo sia scontato il fenomeno Candy Crush, una delle prime app ad avvicinare moltissime nuove persone al gaming. Fra i primi ad inserire delle nuove meccaniche (come le vite a tempo, o “shoppabili”) che intrappolano un pubblico di nuovi giocatori, ma che sicuramente fanno storcere il naso ai gamers più navigati.

Mobile gaming
Mobile gaming, sempre più ibridazione tra smartphone e consolle tradizionali. Photo credit: ArtificialOG, by pixabay

Perchè proliferano giochi per smartphone?

In più probabilmente ad oggi lo smartphone, o il tablet, è il primo approccio tecnologico che hanno i bambini più piccoli ai videogame. Si trovano davanti ad un modo di giocare diverso, ovvero quello attraverso il touch screen, che è sicuramente la maniera più semplice di interagire. Senza l’utilizzo di mouse e tastiera o di un pad. Poter toccare direttamente un personaggio di gioco e vedere come questo reagisce è più stimolante di farlo attraverso un controller e più intuitivo per un bambino.

Siamo destinati ad avere solo giochi casual su smartphone

Solo per giocatori occasionali e per bambini? Secondo me no, e gli annunci di giochi come Diablo Immortal sono una nuova spinta al mercato del gaming, che può trovare in questo mezzo dei nuovi stimoli e un nuovo pubblico.

Inoltre si sta lavorando da tempo alla possibilità di integrare lo smartphone con i giochi da Pc\console. Ad esempio alcuni party game moderni utilizzano proprio il telefono come controller.

Aiutando così gruppi di amici a giocare anche in 8, senza bisogno di 8 controller (che non ci sono mai). Oppure alcuni giochi come Destiny 2 danno la possibilità di integrare delle funzioni attraverso un app companion. Che ti permette di gestire l’equipaggiamento, seguire la mappa, ripercorrere la storia, un po’ come un menù tascabile.

In definitiva, il mercato gaming mobile è destinato a crescere e ad essere sempre più connesso ai nostri videogiochi “tradizionali”. Ma non dobbiamo vederlo come un demone perché avvicina più casual a questo mondo, ma anzi un valore aggiunto.