Il 6 maggio alle ore 16:00, Stroncature ha ospitato la presentazione di “To be digital” di Alessandro Angelelli (Moondo, 2022). Con l’autore Sergio Bellucci (giornalista, saggista, scrittore, esperto nei processi di trasformazione digitale) e Massimo Giordani (Innovation & Marketing Strategist, Presidente Associazione Italiana Sviluppo Marketing).
E’ stata l’occasione per approfondire le tematiche del digitale: il valore dei dati, il ruolo dei social ed il lavoro implicito. Scoprire le 5 caratteristiche dell’essere digitale. Infine si è guardato avanti, cercando di vedere cosa si prospetta all’orizzonte (VR, AR, MR, Metaverso, Blockchain ed NFT) un mondo fatto di novità ed opportunità, che vale la pena iniziare a conoscere e che non è nemmeno così lontano.
To be digital – Libro disponibile su Amazon.
La presentazione del libro avviene in collaborazione con Stroncature, un progetto editoriale libero ed indipendente che persegue un triplice obiettivo:
Proporre agli abbonati strumenti di approfondimento di quanto accade nel mondo a livello sociale, politico, economico e tecnologico e che consentano loro di intuire quello che accadrà.
Produrre analisi non mainstream, ma riflessioni sul futuro della società digitale con particolare attenzione ai temi della libertà e pluralismo, solidarietà e welfare, ricerca scientifica ed innovazione tecnologica.
Fornire tutto quanto sopra nel rispetto delle libertà altrui con il fine di aumentare le conoscenze collettive.
Non poteva che essere il nostro partner ideale, con il quale nei prossimi mesi proporremo la presentazione di altri libri che approfondiscono le tematiche del digitale, della comunicazione e del marketing 😉
Bruna Corradetti è una giovane scienziata italiana, un’eccellenza mondiale nel suo settore. La sua storia è il risultato di esperienze acquisite in giro per il mondo, studiando tra i centri di ricerca scientifica internazionali più prestigiosi del pianeta. Nel 2016 ha ottenuto il “Premio Italia Giovane” per l’impatto positivo che il suo esempio ha sulle nuove generazioni, nel 2017 è stata nominata tra le “100 Eccellenze Italiane” premiate a Montecitorio. Prima donna ad essere nominata segretario della European Society for Translational Medicine e nel 2019 ha ricevuto il premio BPW-CUP come riconoscimento del suo ruolo di donna leader nelle discipline STEM. I suoi studi riguardano la comprensione delle informazioni inviate dalle cellule staminali a quelle circostanti in modo da riattivare il potenziale rigenerativo intrinseco del nostro corpo, debilitato da infiammazioni croniche, stress e cancro. Le fa battere il cuore riconoscere i talenti dei giovani e avere l’onore di supportare il loro potenziale. Si batte perché la scienza diventi sostenibile, e sappia insegnare a rialzarsi attraverso le difficoltà per rafforzare il coraggio delle nuove generazioni e accompagnarle nei loro successi. Il fatto che Bruna abbia scelto Moondo per far conoscere il suo lavoro e per divulgare conoscenza ed avvicinare i giovani alla scienza ci rende orgogliosi. Benvenuta tra noi!
Sviluppo terapie avanzate prende ispirazione dalla socialità dei sistemi biologici
Lo sviluppo terapie avanzate in grado di risvegliare il potenziale rigenerativo del corpo, quando annientato da una malattia o da un’infezione perde coscienza delle proprie capacità, si basa sull’osservazione attenta dei processi che utilizza per funzionare e comprendendo gli errori che commette quando smette di farlo.
Il mio gruppo studia le informazioni che le cellule staminali, cellule con una spiccata capacità terapeutica, sfruttano per comunicare con quelle circostanti. Si tratta di veri e propri pacchetti di parole che cambiano a seconda del programma che vogliono attivare nelle cellule che le ricevono. Quelle parole guidano i processi biologici che ci tengono in salute. Si tratta di veri e propri pacchetti di parole che cambiano a seconda del programma che vogliono attivare nelle cellule che le ricevono. È per questo che le utilizziamo come terapie salvavita!
Comprendere il linguaggio utilizzato dalle cellule staminali rappresenta la strada che stiamo percorrendo per lo sviluppo di terapie biomimetiche avanzate in grado di risvegliare il potenziale rigenerativo del nostro corpo, quando annientato da una malattia o da un’infezione perde coscienza delle proprie capacità. Lo facciamo prendendo ispirazione dai processi che utilizza per funzionare e comprendendo gli errori che commette quando smette di farlo.
Le informazioni scambiate tra cellule staminali e cellule immunitarie hanno un potere enorme e guidano i processi biologici che ci tengono in salute. È per questo che le utilizziamo come terapie salvavita. Eppure, a volte capita che le lettere di quelle parole vengano assemblate in maniera incorretta, che il contenuto di quei pacchetti venga alterato e che si attivino nelle cellule riceventi meccanismi aberranti, con conseguenze negative sul funzionamento del nostro organismo. Comprendere il linguaggio utilizzato dalle cellule staminali rappresenta la strada che sto percorrendo per lo sviluppo di terapie avanzate in grado di educare il nostro sistema immunitario a proteggerci.
Ma se il corpo sa benissimo come reagire ad un insulto, da dove deriva questa incapacità di reagire? I processi biologici non si discostano molto dalle interazioni che avvengono nella società. L’effetto di un ambiente infiammato sulle cellule staminali, il cui potenziale si definisce sulla base delle informazioni che ricevono, mi ricorda spesso quello che l’esposizione a un ambiente tossico, chiuso, apatico ha sulle nuove generazioni.
La prima reazione è quella di dare il meglio di sé, mobilitarsi per raggiungere l’obiettivo, mostrarsi positivi e propositivi. Anzi, è proprio quando si trovano in un ambiente difficile che le cellule staminali producono segnali utili a riattivare le cellule circostanti, ricordare loro chi sono, sembra sia proprio la sfida a conferire loro un effetto terapeutico così potente. Se l’infiammazione persiste, però, come i giovani, anche le cellule esauriscono le loro risorse e smettono di lottare. Ed è in quei casi che c’è bisogno di un intervento esterno. La chiamiamo terapia cellulare.
L’ambiente in cui operiamo ha il potere di distorcere la natura di alcune parole e modificarne il significato, con un effetto devastante sul nostro corpo e conseguenze distruttive sulla nostra società. Ha il potere di sostenerci nel raggiungimento dei nostri obiettivi oppure di renderci insicuri e annientarci, per sempre. Non è così che inizia la strada verso la rinuncia a un sogno?
Nel mio lavoro mi confronto con imprenditori per elaborare strategie e tattiche di marketing. Prima di iniziare cerco sempre di capire come il prodotto (l’azienda) è posizionato. Spesso è proprio qui che iniziano i problemi. Sono ancora tanti gli imprenditori che sottovalutano l’importanza del posizionamento di un prodotto, senza il quale anche la migliore strategia e la più astuta tattica falliscono miseramente. Vediamo di capirne qualcosa in più.
Prima di ogni strategia di marketing, quindi della definizione delle tattiche con cui realizzarla, occorre definire con precisione il posizionamento del prodotto, che inevitabilmente influenzerà entrambe. Il posizionamento di un prodotto nel marketing: “indica il modo in cui un prodotto trova collocazione nella mente del potenziale consumatore” (fonte dizionario Treccani).
Posizionamento dinamico? No grazie.
In un mondo ibrido reale/digitale gli stimoli comunicativi cui siamo sottoposti sono praticamente continui durante tutto l’arco della giornata. Per questo motivo c’è chi ritiene che sia necessario modificare il posizionamento a seconda del contesto, tanto da parlare di posizionamento dinamico.
Per i cultori di questa teoria si raggiunge il risultato attraverso due metodologie: affiliation e lock-in. Senza entrare troppo nel dettaglio, con affiliation s’intendono le operazioni volte ad alimentare atteggiamenti fiduciari nel cliente (politiche di prezzo eque, velocità nella consegna, tempestività del servizio di customer care, ecc.), mentre con il lock-in si persegue l’obiettivo di far aumentare la percezione degli “switching costs” da parte del cliente (nel caso pensasse di cambiare fornitore).
Il posizionamento è già nella mente del cliente, basta trovarlo
Personalmente ritengo la teoria del posizionamento dinamico una contraddizione in termini. Se una cosa è “posizionata” non si muove (altro che dinamica). Gli preferisco di gran lunga la vecchia teoria del posizionamento di Al Ries, secondo cui l’obiettivo del posizionamento di un prodotto sta nel trovare la “porta” che ci permette di entrare nella mente del potenziale cliente (ecco che ritroviamo il concetto di mente della definizione Treccani). Una teoria datata, ma a mio avviso ancora del tutto valida.
Seppure ogni cittadino, attraverso la rete internet, vive un mondo parallelo (digitale) in cui riceve e produce informazioni e comunicazione, paradossalmente non è comunicando che riusciremo a posizionare e vendere un prodotto, quanto piuttosto entrando per primi nella mente del consumatore con un’idea, un concetto.
Ma non basta trovare la porta, bisogna farlo per primi! E nel varcare quella porta non bisogna tentare di cambiare l’immagine mentale del cliente, semmai rafforzarla. Capisci bene come il concetto di posizionamento dinamico è per me un nonsense. Il posizionamento è uno, ed una volta trovato è meglio pensarci dieci volte prima di cambiarlo. Si può fare ma è un rischio.
Trovare il giusto posizionamento è operazione complessa, che influenzerà per anni tutte le strategie e le tattiche di comunicazione e marketing. Per raggiungere l’obiettivo occorre abbandonare le logiche convenzionali secondo cui è necessario cercare le caratteristiche nell’azienda o nel prodotto, e sforzarsi di guardare nella mente del potenziale cliente. Lì il posizionamento del prodotto c’è già!
Quando negli anni ’70 ad alcuni esperti di marketing fu chiesto di posizionare la 7-Up, bibita concorrente a Coca Cola e Pepsi Cola, questi decisero di non guardare alle caratteristiche del prodotto. Se lo avessero fatto avrebbero probabilmente convenuto che si trattava di una “bibita al gusto di limone”, “bibita gasata e trasparente”, “bibita dissetante”, ecc. Ma non avrebbero mai trovato l’idea “The Uncola” all’interno di una lattina di 7-Up. L’idea era già nella testa di chi la beveva. https://www.linkedin.com/embeds/publishingEmbed.html?articleId=7118344906148141446
Altra considerazione, ho accennato al fatto che non basta trovare la porta, bisogna farlo per primi. In un dato settore o sei il primo (leader di settore) o sei il secondo (e ti posizioni in alternativa al primo, contrapponendoti ad esso). Tertium non datur, dicevano i latini.
Se ti chiedessi chi è stato il primo uomo ad aver messo piede sulla Luna? Forse risponderesti correttamente Neil Armstrong. E se ti chiedessi chi è stato il secondo? Ed il terzo? Beh diciamo che l’esempio è chiaro, no? Ma non vorrei lasciarti con il dubbio, quindi il secondo è stato Aldrin, il terzo Conrad ?.
Si parla di posizionamento nel momento in cui si lancia un nuovo prodotto, anche se a volte è necessario tentare di “ri-posizionare” un prodotto già presente sul mercato. Ribadisco, si tratta di un’operazione molto rischiosa e difficile, proprio perché una volta che si è creata l’immagine di prodotto nella mente del consumatore sarà molto complicato (se non impossibile) modificarla.
Perché? Perché ognuno di noi vede, sente, tocca, gusta, odora, ciò che il nostro cervello si aspetta di vedere, sentire, toccare, gustare, odorare. Con buona pace del posizionamento dinamico…
Nell’ultimo articolo della newsletter ho accennato al posizionamento del brand ed all’importanza di definire questo aspetto prima di affrontare qualunque ragionamento sulla strategia di marketing. Prima di iniziare c’è ancora un nodo da sciogliere: strutturare la presenza online dell’azienda.
MEZZI PROPRIETARI VS PIATTAFORME
Ieri mi sono imbattuto in un post sponsorizzato che diceva testualmente: “La tua azienda non ha bisogno di un sito web”. Qualche giorno fa un altro: “E’ finita l’era delle web agency” e via a seguire con una serie di affermazioni che avrebbero dovuto giustificare il titolo ad effetto acchiappaclic (clickbait per i puristi della materia?).
La mia posizione in proposito è molto semplice e, come spesso mi capita, la generalizzo rendendola comprensibile a tutti, anche all’oramai famoso pescivendolo mago del marketing.
Mettiamola così: sei un ricco imprenditore, hai una casa grande e spaziosa, con un enorme giardino che decidi di aprire per ospitare persone con cui hai voglia di fare amicizia e socializzare. Le persone iniziano ad arrivare, parlano, si scambiano opinioni, foto, video, si innamorano, si lasciano, insomma, socializzano. Tu investi per far stare sempre meglio i tuoi ospiti. Compri mobili e giochi da giardino, costruisci una bella piscina, aree per picnic, organizzi concerti live, insomma va tutto alla grande!
Nel frattempo la tua conoscenza degli amici migliora notevolmente, scopri che alcuni vengono solo per la piscina ed hanno bisogno di ombrelloni e sdraio. Altri amano frequentare il giardino, parlano di arte e leggono libri, alcuni corrono. Capisci che acquisterebbero volentieri libri o scarpe da running. Così contatti aziende del settore e gli proponi in affitto aree della casa in cui possono esporre e vendere la loro merce. In cambio di un compenso, ovvio. D’altronde sei un imprenditore!
Passa il tempo, si crea e consolida la community. Tutto fila liscio, fin quando qualcuno inizia a pensare che quella bella casa, con quel meraviglioso giardino pieno di gente sia, in realtà, la sua. Ed inizia a comportarsi in modo inappropriato per i tuoi canoni: alza la voce, non rispetta gli orari e le regole (che sono le tue regole, quelle che TU hai deciso per vivere in casa TUA con i TUI ospiti). All’inizio glielo lasci fare, fin quando non supera il limite. Quando per te è decisamente troppo, lo cacci di casa!
Cosa c’è di strano? E’ forse un comportamento anti democratico? Sembrerebbe di no. Ma se la proprietà privata è un social network? E’ esattamente quello che è successo al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump durante l’ultima campagna elettorale.
Approfondiamo meglio l’accaduto e domandiamoci: “E’ normale quello che è successo?” No, non è normale. “E’ corretto?” Forse si, è corretto. E’ giusto tutto questo? Ecco la vera domanda! Ma rispondere a questa domanda implica introdurre una riflessione che svierebbe dal ragionamento inziale: un’azienda può essere online senza un sito proprietario?
Un’azienda può essere online senza un sito proprietario?
A supportare la tesi di chi sostiene che si, si può essere online senza possedere alcun mezzo proprietario, la spiegazione che grazie alle pagine create su piattaforme di terzi (Google My Business, Amazon, Ebay, Facebook, Instagram LinkedIn, YouTube, Twitter, Pinterest, TikTok, Snapchat, ecc.) i siti web per le piccole realtà avrebbero poco senso e sicuramente meno visite delle pagine social.
E’ come sostenere che si potrebbe vivere nel mondo reale senza una casa (di proprietà, o in affitto), perennemente ospiti di amici, parenti, conoscenti, sconosciuti. Si può fare? Forse. Ma il rischio lo abbiamo appena visto, si può essere sbattuti fuori da un momento all’altro. Senza considerare l’altro enorme rischio legato alla sicurezza: e se il tuo profilo viene “hackerato” e cancellato?
Dall’altro lato chi sostiene che sia necessario possedere uno o più strumenti di comunicazione digitale, magari da implementare con i vari Facebook, Twitter, YouTube e compagnia cantando.
La costruzione della tua identità e presenza digitale costa impegno e fatica, è ragionevole affidarla completamente all’arbitrio di terzi? Con il rischio di scomparire in un batter d’occhio. Puff… Appù!
E la tua azienda? Come è strutturata la sua presenza online?
All’interno di una strategia di marketing sono diversi gli strumenti che un’azienda ha a disposizione per accrescere la propria popolarità e autorevolezza, nonché le vendite. Un ruolo particolarmente utile a suscitare l’interesse dei consumatori e a persuaderli è quello delle etichette adesive, biglietto da visita dei prodotti, il primo tramite con i sensi della persona. A questo si affianca quello di fornire informazioni sul prodotto, tra cui quelle obbligatorie.
Coerenza con la marca, capacità di sorprendere, riconoscibilità, ma anche chiarezza e trasparenza; sono tante, dunque, le caratteristiche che una buona etichetta deve rispettare, senza dimenticare ovviamente la qualità di stampa.
In tale contesto diversità e unicità fanno spesso la differenza. Il presupposto iniziale di tutti i progetti di marketing è rappresentato dal posizionamento del brand sul mercato, con il quale ogni marca punta a occupare un certo spazio nella memoria dei clienti. Da questo punto di vista le etichette adesive possono fornire i giusti input al consumatore per abbinare concetti specifici al prodotto, e di conseguenza alla sua marca.
Ma come si fa a rendere le etichette dei prodotti un valido strumento di marketing? Partendo da una progettazione che metta in evidenza i valori del brand e che sia coerente con la sua comunicazione, è importante poi tradurre il tutto in un prodotto concreto che sia funzionale alle esigenze dell’azienda, ovvero in un’etichetta personalizzata.
Le etichette in bobina
Per la creazione di etichette di qualità e personalizzate in virtù dei singoli bisogni, si fa riferimento a quelle in rotolo o in bobina, le più utilizzate ormai dalle aziende di ogni settore. Le etichette in rotolo si preferiscono, infatti, per le maggiori opportunità di configurazione della stampa, anche dal punto di vista delle nobilitazioni. Hanno, inoltre, standard di qualità molto elevati e garantiscono la possibilità di essere applicate anche automaticamente tramite macchina etichettatrice.
Le etichette in bobina sono usate per contenitori e bottiglie di qualunque genere, e assicurano un risultato altamente professionale. È possibile personalizzare le etichette in bobina con facilità, approfittando dei punti di forza peculiari della stampa su rotolo. Le etichette possono essere ovali, rotonde, quadrate o rettangolari, senza limiti né vincoli di alcun genere dal punto di vista del formato, che può essere addirittura fronte-retro.
La fustellatura
Per le etichette in bobina è possibile poi realizzare la sagoma con la fustellatura a laser, non solo con quella meccanica. La fustellatura a laser è la veloce, nonché economica. Il laser, tuttavia, rilascia in corrispondenza dei margini delle etichette un lieve bordino bianco, che risulta visibile sulle etichette a fondo scuro. È importante per cui capire se questo tipo di fustellatura è la migliore in base al tipo di etichetta che si va a stampare. In alternativa quella meccanica resta la scelta ottimale per tutte le etichette con fondo scuro.
Personalizzare etichette online
Personalizzare etichette, quindi, è fondamentale per il marketing di un’azienda. Le opportunità garantite online in termini di configurazione delle etichette sono tantissime, tuttavia è importante saper scegliere tra i tanti fornitori di servizio attualmente in rete.
In questo campo LabelDoo ha costruito una realtà solida e finalizzata proprio a fornire soluzioni ideali alle aziende, di qualunque settore ed entità.
Avendo alle spalle oltre 40 anni di esperienza, questo etichettificio storico mette a disposizione un servizio online che permette di personalizzare le etichette al meglio, con grande libertà di scelta e tantissime opzioni a disposizione. Il tutto con la garanzia di una qualità di stampa eccellente.
Tutti comunichiamo, lo abbiamo sempre fatto. Oggi lo facciamo ancor di più grazie agli strumenti messi a disposizione dal mondo digitale (siti, piattaforme, social, ecc.), tanto che alcuni studiosi (Luciano Floridi) parlano di Infosfera: un ecosistema informativo in cui siamo immersi e viviamo e che tutti contribuiamo ad alimentare (media classici, ma anche enti, istituzioni, imprese e singoli cittadini).
Paradossalmente questa iper-produzione di contenuti, nel campo aziendale, rende le aziende sempre più editori (e gli editori sempre più aziende). Si assiste cioè ad un processo di trasformazione delle aziende in media company.
Interessante e molto esaustivo in tal senso il libro di Diomira Cennamo (L’azienda media company), che scrive: “Per operare ed essere competitive nel nuovo scenario comunicativo, saturo di informazioni e scarso di attenzione, le aziende devono trasformarsi almeno parzialmente in editori, con un cambiamento radicale che investe l’intera cultura aziendale ed i modelli organizzativi interni”.
Questo processo di trasformazione avviene nel tempo, sicuramente non dall’oggi al domani e non certo con voli pindarici, ma per gradi, attraverso un percorso di migrazione ed adattamento organizzativo interno all’azienda che possiamo sintetizzare (generalizzando per semplicità esplicativa) in 4 fasi, con livello di complessità crescente:
1. Comunicazione transmediale di prodotto. E’ la prima forma di comunicazione aziendale, non esiste azienda che all’inizio non veicoli il proprio prodotto. Es: campagna pubblicitaria AXA, nati per proteggere, basata sulla diffusione di videospot, post social, banner, digital PR, in cui venivano raccontate le storie di agenti AXA che proteggevano i propri assicurati vittime di incidenti/cause naturali, ecc. Il prodotto è al centro e viene comunicato in modo transmediale.
2. Comunicazione transmediale di brand. Es: campagna Mercedes-Benz lanciata in occasione della festa della donna e che rende omaggio a Bertha Benz (moglie dell’inventore dell’automobile Carl) ed a tutte le donne coraggiose con il video: “The journey that changed everything”. Lo strumento utilizzato è un video ma l’enorme coinvolgimento che crea a livello emozionale (ovviamente voluto) lo rende un esempio transmediale di comunicazione, dal momento che lo stesso è stato citato e/o riportato in articoli di giornale (cartacei e digitali), post su social network, trasmissioni radiofoniche, ecc. In questo caso è il brand ad essere al centro e comunicato in modo transmediale.
3. Comunicazione tramite house organ che veicola valori, vision, mission, CSR, ecc. attraverso una vera e propria redazione interna all’azienda in grado di garantire la gestione di awareness/reputation/recruitiment/crisis ecc. Es. Blog di McKinsey, un vero e proprio house organ aziendale. La comunicazione di notizie, dati, informazioni riguardanti l’azienda è strutturata e segue un vero e proprio piano editoriale.
4. Media company: l’azienda (o parte di essa) diventa una vera e propria media company. Es: Red Bull, crea contenuti coinvolgenti grazie ad una struttura interna. La comunicazione aziendale viene veicolata attraverso contenuti editoriali che poco hanno a che fare con il core business, ma che creano engagement ed alimentano i valori della community.
E la tua azienda? In che fase si trova?
Ulteriori info ed approfondimenti nel libro To Be Digital.
E’ opinione diffusa che la Rete sia il luogo di una comunicazione superficiale, un susseguirsi di botta e risposta, che alimenta il conflitto ed azzera il confronto. Quello che conta è stare sul pezzo, velocità, immediatezza, ma anche superficialità. Non è raro che una notizia venga data prima da un semplice cittadino sul suo profilo social che da un giornale digitale, o che questo ultimo (nato con la possibilità di offrire al lettore fotogallery, video, audio, link, ecc.) finisca con il fornire meno informazioni di uno cartaceo che esce il giorno successivo.
“Stiamo entrando in un’era nuova piena di opportunità che affida a ciascun individuo il potere straordinario di partecipare direttamente alla formazione di notizie ed opinioni”, scrive Vittorio Meloni ne Il crepuscolo dei media.
“Internet è uno strumento straordinario utile all’aggregazione di gruppi sociali […]Parlare contro qualcuno o qualcosa nel tentativo di creare consenso. È un fenomeno a cui assistiamo tutti i giorni, a tutte le ore, ogni volta che entriamo sulla rete e leggiamo i post su Twitter o su Facebook. E’ chiaro che a questo punto la leadership diventa “molecolare”, come si usa dire “uno vale uno”: ma questo è la negazione dell’idea stessa di leadership” (Giampaolo Sodano).
Ecco appunto, l’idea di una “leadership” molecolare (cui accenna Sodano nel libro To Be Digital) mi affascina per la sua contraddizione in termini, riconosciuta dallo stesso autore. E difatti sarebbe più corretto definirla “influenza molecolare”. In Rete siamo tutti alla continua ricerca di “influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico”, che è esattamente la definizione che il vocabolario Treccani dà di Influencer: “Personaggio di successo, popolare nei social network e in generale molto seguìto dai media, che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico”.
Ma allora qual è la differenza tra un influencer ed un leader?
La risposta ce la dà Simon Sinek: “Ci sono solo 2 modi per incidere sulle scelte e sul comportamento delle persone: influenzarle oppure ispirarle”.
Ecco, a mio avviso la differenza tra l’influencer ed il leader è tutta qui, nei verbi che ne descrivono l’azione. Il primo influenza, in qualche modo “manipola”, il secondo ispira. E volendo potremmo aggiungere che il primo influenza per vendere, il secondo ispira perchè ha una visione. Un grande leader non necessariamente fa grandi cose, ma consente alle persone di raggiungere grandi risultati.
Lo sviluppo tecnologico è inarrestabile, con le macchine che aumentano la capacità computazionale (memorizzazione di informazioni, elaborazione e trasmissione) ad una velocità non comparabile con l’evoluzione del cervello umano. In pratica abbiamo per la prima volta due elaboratori che viaggiano a velocità diverse, con quello “artificiale” che conosce sempre meglio quello reale.
Secondo Roger McNamee (Facebook Early Investor Venture Capital): “Durante i primi 50 anni della Silicon Valley l’industria creava e vendeva prodotti: hardware e software. Negli ultimi 10 anni le grandi aziende vendono utenti”. Ora, se iniziamo a pensare alle persone come prodotti, dobbiamo entrare nell’ottica che per venderli bisogna conoscerli. E per conoscerli bene ci vuole tempo. Quale strumento migliore di uno smartphone? Sempre connesso, sempre con noi, con installate delle belle APP “gratuite” che ci aiutano a ritrovare amici o conoscerne di nuovi, a trovare amori, App che ci assistono nel traffico, che ci danno accesso a tutta la musica del pianeta o ad una infinità di film o video. Da piccolo ti davano il ciuccio per stare buono? Gli smartphone sono ciucci digitali. Anzi sono meglio, perchè funzionano anche con i grandi.
Tempo ed attenzione
Il tempo, appunto. Il nostro tempo è la materia prima che muove questa nuova industria. E come per ogni industria che si rispetti: più materia prima, più produzione, più vendite, più guadagno. Ottenere il nostro tempo, catturare l’attenzione e mantenerla più a lungo possibile, per estrarre dati, è il fine per cui sono pensati gli algoritmi delle APP che utilizziamo quotidianamente. Mai come oggi l’affermazione “il tempo è denaro” è diventata realtà. Su questo argomento ha scritto riflessioni molto interessanti Sergio Bellucci (L’industria dei sensi – Harpo): “vendiamo il nostro tempo, solo che nessuno ce lo paga”. Anche perché in pochi ne sono consapevoli, aggiungo io. Tutti i servizi gratuiti sono pagati per noi dagli inserzionisti. Uahooo, che gentili! In cambio gli diciamo chi siamo, cosa facciamo, cosa vogliamo, persino cosa sogniamo di fare o di essere. Non è mai esistita la possibilità per un’azienda di conoscere perfettamente ogni cliente. Poi è arrivata la Rete, il paese di Bengodi, il paradiso sognato dalle grandi aziende. Investire sulla Rete significa aumentare la conoscenza del prodotto più venduto del secolo.
Controllo e comando
In un contesto del genere le domande da porsi per regolamentare un settore, o meglio un intero mondo, (quello digitale che sta nascendo), sono tante e tutte di difficile soluzione. Ma è necessario affrontare questi argomenti perchè chi controlla la Rete controlla l’economia e chi controlla l’economia controlla il mondo (stavolta quello reale). Il problema del controllo è dunque il vero dilemma. Chi esercita la sovranità digitale? Chi controlla i dati ed il loro utilizzo? Il software? La robotica? Gli standard ed i protocolli (5G), l’hardware (ad es. gli smartphone)? E le infrastrutture su cui i dati viaggiano? Domande cui nei prossimi anni occorrerà dare una risposta.
Caro lettore, abbiamo deciso di cambiare il nostro giornale e dare a Moondo un focus specifico, trasformandolo in un laboratorio di idee sul digitale. Vogliamo creare un luogo in cui discutere dell’impatto che questa transizione ha nelle varie professioni, sulle opportunità che offre, ma anche sui rischi ed i pericoli che nasconde. Coinvolgendo tutte le generazioni, native digitali e non, stimolandone il confronto.
Mantenendo il fine ultimo della condivisione di conoscenza mettiamo a disposizione il giornale per chiunque voglia contribuire con il proprio pensiero, offrendo un megafono per diffonderlo in Rete. Ci farebbe davvero piacere coinvolgerti nel processo di trasformazione. Come puoi partecipare? Inviando i tuoi contributi alla redazione: info@moondo.info.
Ma c’è anche un’altra possibilità, che non ti creerà alcun “disturbo”. Ognuno di noi utilizza i social network, scrivendo ed argomentando sulle tematiche del digitale. LinkedIn, ad esempio, è una miniera di argomenti e spunti di riflessione, non tutti però lo utilizzano! Semplicemente perché sono ancora tanti, troppi, i professionisti che non hanno un profilo o si collegano saltuariamente. Potresti allora autorizzare la redazione a selezionare ed utilizzare i tuoi post (basta una mail a info@moondo.info), rendendoli spunto di riflessione sotto forma di articoli del giornale (con la tua firma). Non ti costerà nulla, ed avrai un canale in più, accessibile a tutti, per far conoscere il tuo pensiero. Che ne pensi? Ti unisci a noi?
Creiamo insieme la più grande community di “pensatori digitali”. Aiutiamo le eccellenze ad emergere. Supportiamo le competenze digitali delle giovani generazioni, con l’esperienza e la professionalità acquisita sul campo. Contribuiamo a dare una scossa a questo Paese! Più saremo, maggiori possibilità avremo di creare e diffondere cultura digitale.
Moondo è un giornale online con 1,2 MLN di lettori e 1,8 MLN di pagine viste. Una piattaforma di approfondimento, confronto e condivisione di conoscenza. Abbiamo ospitato, in questi 5 anni, grandi firme del giornalismo italiano, top manager ed imprenditori del made in Italy, professionisti della medicina, dell’enogastronomia e della cultura. Ne siamo orgogliosi. Eppure mancava qualcosa, un filo rosso che legasse tutti i ragionamenti, una stella polare cui guardare per affrontare la navigazione negli anni avvenire. Oggi quel filo che tutto unisce l’abbiamo trovato e, davanti ad un mondo che cambia, sentiamo l’esigenza di cambiare il giornale.
Scrivendo To Be Digital ho avuto modo di chiarire cosa intendo per “essere digitale”, approfondito il modo in cui questo strano “essere” comunica, indagato sui modi con cui vende. Per farlo è stato indispensabile chiarire cosa intendo per marketing.
Iniziamo con il dire che, a mio avviso, siamo dinanzi ad una delle parole più abusate al mondo. E’ ovunque, ti rincorre, ti circonda, l’afferri e pensi di averne capito il significato ma ti sfugge per riapparire sotto altre vesti. Ultimamente facendosi “accompagnare” da un aggettivo che la completa, per indicare tutto ed il suo contrario. Ma ha una grandissima qualità: FA FIGO!
Se ti chiedono “che lavoro fai?” e rispondi “Lavoro nel Marketing!” ‘Azz! questo è uno forte. Vuoi mettere l’effetto?! Solitamente l’altro fa la faccia compiaciuta, di chi dovrebbe aver capito. Ma capito cosa? Se provi a chiedere “Secondo te cosa faccio nello specifico?”. Silenzio… Il problema è quando la stessa domanda la fanno a te “Ok, marketing, ma nello specifico di cosa ti occupi?”. Se fai fatica a rispondere in due parole ed inizi dalle 4P di Kotler. Mmmm…
Ricorriamo al Dizionario, che è sempre la cosa migliore in questi casi. Il Cambridge Dictionary alla voce “to Market” scrive testualmente: “to make goods available to buyers in a planned way that encourages people to buy more of them, for example by advertising”. Ovvero, rendere disponibili prodotti ai clienti, secondo una pianificazione che ne incoraggi più di un acquisto, ad esempio attraverso la pubblicità.
Bene, anzi male, perché siamo esattamente all’inizio, le famose 4P: rendere disponibili (place) prodotti (product) ai clienti perché ne acquistino più di uno (price), ad esempio attraverso la pubblicità (promotion). Come nel gioco dell’oca siamo tornati alla casella di partenza.
Il fatto è che dire “lavoro nel campo del marketing” equivale a dire “lavoro nel campo del mare” Potresti essere un pescatore, un archeologo subacqueo, un biologo marino, un marinaio o un capitano, un bagnino o un ingegnere navale… Ma allora, se proprio vogliamo dare una definizione di “marketing”, che sia netta, decisa, onnicomprensiva.
Cos’è il marketing?
Marketing è tutto quello che fai per vendere.
Questa è la mia definizione, capisci che è vasta abbastanza per farci rientrare tutto. Esattamente come la precedente, ma almeno la comprende anche il pescivendolo sotto casa.
A proposito di pescivendoli. Mia moglie è napoletana, a 50 m dal portone di casa c’è una pescheria. Il titolare è figlio e nipote di pescivendoli, comincia da ragazzino a lavorare insieme al padre, poi apre la sua pescheria. Una vita ed un lavoro tranquillo. Fin quando, nel febbraio 2019 pubblica sulla sua pagina Facebook una video ricetta. E’ l’inizio di un successo inarrestabile. Oggi la pagina ha superato il milione di fan, con tassi di engagment da far accapponare la pelle a qualunque “esperto” di social media marketing. Lui è diventato una star dei social, sta aprendo ristoranti in giro per il mondo ed ha raccontato la sua incredibile storia in un libro.
Cosa ha fatto di tanto speciale per meritarsi tutto ciò? Marketing. Ha trovato una strada per vendere di più, e l’ha percorsa.